"La
domanda è se un "Giorno della memoria" serve; se non è un meccanismo di
ripetizione, che evoca un evento, ma esenta dal partecipare in prima
persona. Basta l'automatismo della data, un minimo di rispettosa
citazione per avere compiuto un dovere. Se quel dovere non c'era, più o
meno, tutto andava avanti come prima: buoni, cattivi, un'immensa zona
grigia. Quel che è stato è stato e ci pensa la storia che, comunque, in
momenti diversi viene riscritta" (Furio Colombo). In un momento
storico in cui la storia la si legge per le esigenze dell'oggi, noi non
raccontiamo la storia che ci piace o quella che ci conviene, ma quella
di un testimone, per due anni prigioniero in un "campo di lavoro"
tedesco, accanto al quale c'era un lager con camere a gas e forno
crematorio. Una storia da ricordare. Anzi, da non dimenticare.
Alberto
Alioto, classe 1922, milazzese, figlio di un rais della tonnara della
famiglia Calapai, è un giovane marinaio ventunenne, quando l'8
settembre del '43 si trova a bordo di uno dei caccia torpediniere della
Regia Marina Italiana nel porto del Pireo. In quei momenti di
smarrimento, dopo la "fuga" vergognosa del re, qualcuno dice a quel
marinaio e ai suoi commilitoni che li riporteranno in Italia. Li fanno
salire su un vagone di un treno, li chiudono. Quando il vagone si riapre
il nostro marinaio si trova a Jena in Germania, in un campo di
concentramento, Schutsenhofsstras-se, 43. Non è un campo di sterminio,
si tratta di un campo di lavoro. Il marinaio che, prima di partire per
la guerra faceva il panettiere, si ritrova a lavorare lungo una
ferrovia.
"Eravamo
circa 60 dentro una camerata e il ricordo più grande che ho è quello
della fame. Ci davano da mangiare 100 gr di pane al giorno, pane che era
farina impastata con segatura; quando ci trovavamo fuori dalla camerata
rovistavamo fra la spazzatura per trovare le bucce di patate che
riportavamo dentro e arrostivamo sulla stufa. La sveglia era alle 6 di
mattina e ci accompagnavano a lavorare lungo una linea ferrata. Durante
il percorso qualche volta trovavamo qualche mela lungo la strada e,
talvolta, nei rari momenti di riposo, ci riusciva di rubare qualche
fragola da alcuni giardinetti privati che si trovavano lungo la
ferrovia."
Informiamo
il sig. Alioto che recentemente un vescovo ha negato l'esistenza delle
camere a gas che, secondo lui, servivano solo a disinfettare. "Nel mio
campo non c'erano camere a gas. Si trovavano in un lager poco distante. E
c'erano anche i forni crematori. Lo sapevamo perché ce l'avevano detto
alcuni operai civili che lavoravano con noi e, comunque, lo sapevamo
perché quando qualcuno di noi stava male lo prelevavano, gli dicevano
che lo avrebbero portato in ospedale e, invece, lo portavano a morire
nelle camere a gas e nei forni. Forse il sapone che ci davano era fatto
con quello che restava di quei poveretti cremati".
Due anni
lunghissimi senza speranza e con l'annullamento totale della
personalità. " Mi ricordo un napoletano che ogni sabato ci diceva:
Un'altra settimana della nostra vita è passata", quell'altro compagno di
sventura che non ce l'ha fatta e un giorno recatosi in bagno non è più
tornato. Si era suicidato tagliandosi la gola. I militari tedeschi ce
l'avevano in particolare con noi italiani. Quando cominciarono i
bombardamenti degli alleati, lasciavano solo gli italiani nelle
camerate, gli altri li portavano nei rifugi." Il sig. Alioto tradisce
qui una forte emozione che, fortunatamente, supera in breve. "Quando
finì la guerra ci misero su un treno e ci portarono a Vienna; qui ci
liberarono dai pidocchi e rimanemmo ancora in attesa di tornare in
Italia.
Anche a
Vienna, da uomini liberi, soffrimmo la fame. Mi ricordo che una donna,
vedendoci chiedere in strada da mangiare, ci buttò dalla finestra la sua
tessera per il pane".
Tornai a
Milazzo insieme ad un commilitone di Lipari, tale Salvatore Natoli. I
miei genitori mi credevano morto anche se avevano una lieve speranza
alimentata da una veggente di Milazzo presso cui andavano a fare la
scuta ". Cosa si sente di dire ai giovani e alle persone che non hanno
vissuto quell'orrore, gli domandiamo. " Meglio morto che in un lager".
Cosa altro aggiungere?
Santo Laganà