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"La culla senza suoni. Vita di Carmelo Coppolino Billè" di Giuliana Perrone


editoria no profit
La culla senza suoni
la vita di Carmelo Coppolino Billè  di Giuliana Perrone
BIOGRAFIE - Collana "Orme di inchiostro"
ISBN 978-88-6300-087-8
1° edizione febbraio 2013
Pagine 158

Prefazione a cura del Prof. Giuseppe Anania
L'immagine di copertina è di Anna La Rosa

Euro 12,50 (spese spedizione in omaggio)

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Giuliana Perrone, moglie di Carmelo Coppolino Billè, ha recuperato, rielaborato e messo in ordine gli scritti del marito, rendendoli una pubblicazione accessibile a tutti. La narrazione è in prima persona per dare maggiore pregnanza alla storia.
Prefazione del Prof. Giuseppe Anania
Il presente testo intitolato La culla senza suoni è sud­diviso in quattordici capitoli, sigillato dalla lettera dell’amato figlio, Davide, diciottenne, e arricchito da nove signi­ficative poesie enucleate da diverse sillogi inedite di Carmelo Coppolino Billè. Detto titolo referente preavvisa subito il lettore per la durezza impietosa dell’espressione. Si tratta, infatti, di un lettino per neonati, ovvero di un’infanzia muta, senza la presenza di care voci umane (mamma, papà e altri) o di suoni musicali. È la tipica situazione degli infanti abbando­nati, accolti e allevati in particolari istituti chiamati brefo­trofi. Da simile condizione, tali infanti sono salvati solo da una fortuita e provvidenziale adozione. Proprio questa forte tematica Carmelo Coppolino Billè sottopone all’attenzione del lettore nella presente biografia.


Il lettore, senza dubbio, attraversando il testo in predi­cato, ha modo di “scoprire” Carmelo Coppolino Billè nella sua qualità di uomo, di genitore, di nonno, di cittadino, di operaio, di sindacalista, di amatore della cultura e in parti­colar modo della poesia.
Egli si confessa senza alcuna reticenza, perché ritiene di non aver nulla da nascondere e sente il bisogno propul­sivo di gridare al mondo intero la propria solitudine, la propria disperazione, la propria angoscia, allorquando era in balia degli altri, ovvero alla mercé degli umori e dei senti­menti altrui.
Il Nostro non conosce il tanto desiderato volto della mamma, uccisa barbaramente dal marito; prova, quindi, l’esperienza negativa del brefotrofio, la liberatoria adozione e la permanenza presso la “Città del ragazzo” a Messina, gestita da don An­tonino Trovato, detto “padre Nino”. Mentre si trova con i genitori adottivi, frequenta prima la scuola elementare e poi l’istituto di avviamento “Juvara”. Durante le febbrili ricerche sulla storia dei propri dati anagrafici, Carmelo apprende da padre Giacinta di avere “un fratello e una sorella e che anche loro erano stati toccati da questa tragedia che aveva segnato ogni loro passo. [...] Le nostre strade erano state di­vise. Io al brefotrofio per tre lunghi anni, poi adottato. Mio fratello Totuccio aveva poco più di sei anni [...] abitava ora da uno zio ora da un altro, poi a Genova da un terzo zio, o a Castroreale con altri zii [...]. Anche mia sorella Cettina, che all’epoca aveva tre anni, era stata adottata quasi subito da una famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto”. Questa incolpevole diaspora familiare grida al Cielo!
Dei genitori adottivi, Giovanni Billè e Grazia Raffa, il Nostro con immensa commozione e debita gratitudine di­chiara che “sono stati il manto della misericordia in quegl’istanti confusi per la mia piccola età in cerca d’aiuto. Essi tramutarono quel pianto in un sorriso, per affrontare al ga­loppo la vita; questo ricordo fa ancora parte dei miei pen­sieri, essendo il risultato della vita di oggi.
Avevo raggiunto ciò che cercavo. Risalire alle mie origini mi aveva lasciato più confuso di prima e con l’amaro in bocca.
Adesso sa­pevo, ma alcune volte è meglio ignorare per la pace dell’anima”. Al lettore non può sfuggire che il Nostro, nonostante la provvidenziale adozione, ri­mane per sempre scosso dalla scioccante verità. Difatti, tale verità, quale eco importuna, percuote e rimbalza sulle pareti dell’io interiore, causando ovvia inquietudine.
Il Nostro è talmente desideroso di conoscere di persona i citati zii che racconta con grande gioia la propizia occasione offertagli da un amico che, quale tecnico di tele­visori e radio, si recava spesso a Castroreale dove aveva dei clienti. Si tratta chiaramente di parole degne di particolare attenzione per la loro pregnanza psicologica: “Un giorno, insieme ai miei genitori, combinammo un incontro con gli zii: era la prima volta che vedevo quei volti che mi parlavano della mia vera identità. Mi mostrarono e poi con­segnarono una foto di mia madre che ancora conservo con amore. Nessuno parlò di mio padre, come fosse un tabù da tenere ben nascosto. In quell’attimo rividi come in un so­gno la famiglia e il passato – stavolta non era un sogno ma la realtà inseguita per anni. Non parlammo di grossi argo­menti, perché ogni parola ci trascinava alle lacrime e quelle dovevamo evitare, se possibile. Ma nel contempo gli occhi non mentivano, divenivano lucidi anche senza parlare.
In quella casa c’era ancora odore del passato [...]. Finito di pran­zare, chiesi a mio zio Nino quale fosse la casa di mia madre e lui mi accompagnò”. In tale occasione si parla di Totuccio, il fratello, capitano di lungo corso. Si concorda altresì con padre Giacinta l’incontro con i geni­tori adottivi di sua sorella. Carmelo, visibilmente contento, vive per la prima volta la propria parentela in qualche modo ricomposta. Sembra davvero un sogno! Sono parole, invero, pervase da un lato da una inconteni­bile esultanza per l’inopinato ritrovarsi di stretti parenti e dall’altro grondanti di assoluta mestizia correlata soprat­tutto alla visione della foto della madre, innocente bersaglio della furia uxoricida del marito, del tutto indegno di un sep­pure fugace ricordo. Il lettore può cogliere contrastanti sentimenti che sottolineano l’intenso subbuglio che trava­glia l’animo del protagonista.
Inoltre, il Nostro cerca e trova lavoro presso diverse ditte tra cui “Le Officine Galileo di Sicilia”. Adempie agli obbli­ghi di leva al C.A.R. di Orvieto, poi a Roma. Prima, durante e dopo il servizio militare fa alcune conoscenze femminili in diverse località. Il Nostro fervente amatore della poesia dice con orgoglio: “Una sera, arrivato a casa dal lavoro, mia madre m’informò che il prete aveva ricevuto dal direttore del collegio una telefonata, per dirmi che do­vevo ritirare una lettera proveniente da Roma. Non sapevo di cosa si trattasse. Nell’intervallo di lavoro feci una capa­tina alla “Città del Ragazzo” dove mi accolse il capo istitutore, professor Anton Maria Vito Todaro [...]. Con un sorriso e un abbraccio mi comunicò che ero stato selezionato per la fi­nale ad Amburgo con la poesia “Fogli d’un libro”. [...] lesse la lettera, la quale recitava testualmente che dovevo presen­tarmi in una sala dell’EUR a Roma, per contattare gli addetti ai lavori. Fu in quell’occasione che conobbi tre grandi della letteratura italiana e mondiale, i premi Nobel: Quasimodo, Montale e il mancato Nobel Ungaretti”. Ad Amburgo, insieme con un altro vincitore di Bolzano, Carmelo Coppolino Billè, ancora minorenne, rappresenta l’Italia e per loro viene suonato l’inno di Mameli.
Dopo queste e altre esperienze egli dice: “Tornato in Sicilia, notai che tutto era rimasto intatto proprio come l’avevo lasciato, ma tra i ricordi del passato c’era il presente a pungolarmi e a volte mi sentivo desolato per non poter realizzare i miei vecchi progetti.
Ricominciai a lavorare, anzi presi pure qualche lavoro per conto mio, inoltrandomi dentro il misterioso viaggio della vita che riserva sempre sorprese”. Tra le sorprese riservate dal destino al Nostro, c’è a Milazzo la co­noscenza di Angela, con il relativo innamoramento. Dalla loro unione nascono Giovanni, Antonio, Mariagrazia e Tiziana, figli che gli illuminano ogni passo. Dopo incontra Giuliana, dalla quale nascono prima Marco, deceduto prematuramente, e poi Davide.
Questi e altri episodi sono come onde del mare in bo­naccia o in tempesta che sbattono e si infrangono fragoro­samente contro la vita di Carmelo, la cui parola induce alla riflessione, spinge all’apertura, invoglia alla verità, incita alla vera amicizia. Egli, in virtù delle la­crime inghiottite, dei torti subìti, delle lotte vinte o perse, evidenzia un carattere pertinace non alieno, però, da scontati momenti di sconforto, di angoscia e di smarrimento. Uomo di profonda fede non è mai vendicativo ma solo pietoso nei riguardi del proprio simile.
Il presente memoriale è attraversato da positivi senti­menti e da aperture verso l’altro. Esso riesce a mettere sotto gli occhi del lettore molti casi e vicende del protago­nista; rappresenta la realtà vissuta con immediatezza di vita e relative altezze e miserie, o relative illusioni e delusioni, dando così la frastagliata ampiezza di un uomo nel suo compiuto cammino terreno.
È un memoriale intimista che parla al cuore, spingendo il lettore a identificarsi con i sentimenti vissuti e descritti dal Nostro.
Alla fine, non si può non sottolineare che Carmelo conclude il presente memoriale annoverando con grande emozione “i nipoti, che sono il risultato di tutto l’insieme, formando essi e solo essi la luce che splende nell’infinito, augurando loro un radioso avvenire; così sono apparsi nel mondo: Chiara, Gabriele, Mattia, Sara, Giorgia, Manuel, Samuele e Nicolò, che mi hanno dato la carica per continuare questo mio poco spazio del rimanente vivere, cercando sempre di aiutare Davide che ne ha tanto bisogno, perché di padre ce n’è uno solo e di nonni ce ne possono essere quattro. Non infierisco, ma rimango so­lerte a guardare quest’angolo di mondo che a volte mi appare tanto cupo che non riesco a vedere nemmeno la mia om­bra. Auguri, figli miei, sono vo­stro padre e ogni dolore vostro è mio...
Tutt’oggi continuo la mia lotta per sconfiggere il male e aggrapparmi a quella fede nei miracoli che mi è stata insegnata.
Come sarà il mio domani?... Questo lo dovrà scrivere qualcun altro”. Si tratta di parole assolutamente ispirate che danno al lettore la giusta dimensione di Car­melo, forse già consapevole, tra l’altro, del proprio arrivo al capolinea della vita terrena.
Nell’ultima poesia, “Un ricordo lontano”, il figlio Car­melo, rivolgendosi alla madre non conosciuta, si esprime con tali accorati accenti: “Tu vorresti dirmi tante cose,/quelle che ti rimasero/nel cuor che Dio ti pose,/non puoi più dirmele/e ne soffri tanto. È vero?/Me le dirai quando sarò/anch’io nel cimitero...”. Che parole presa­ghe! Madre e figlio già sono pensati in qualche plaga lumi­nosa del Paradiso l’una di fronte all’altro in tenero atto colloquiale. E gli spiriti eletti stanno a guardare! Plaudenti..


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