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L’EDUCAZIONE COME CONQUISTA DELLA LIBERTÀ


Siamo sicuri che l'emergenza educativa non dipenda dagli educatori?
E noi, educatori, siamo capaci di metterci davvero in discussione?....
Nelle nostre comunità spesso si evita la discussione e il confronto.... si vuole la conformità...
Le nostre parrocchie spesso sono solo stazioni di servizio dove si va a prendere il sacramento... nelle parrocchie manca quella elaborazione culturale che dovrebbe aiutare a vivere i problemi della vita reale ....
Noi viviamo in una società che non ha più il senso del futuro, che sostanzialmente è senza speranza ...

Sono questi gli interrogativi posti al Prof di Giuseppe Savagnone direttore del Centro Diocesano per la Pastorale della Cultura di Palermo. gradito ospite venerdi 6 febbraio 2015 presso l'Istituto Industriale E.Maorana di Milazzo incontro promosso dal Centro Studi Agorà Sacro Cuore di Milazzo riservato agli iscritti al Gruppo ecclesiale.
Il Prof Savagnone, già autore del libro "Il coraggio di educare"Costruire il dialogo educativo con le nuove generazioni, in premessa scrive
"Senza alcuna pretesa di suggerire una “ricetta” (che non esiste), questo libro mira a indicare, in positivo, alcuni essenziali punti riferimento per affrontare la crisi in atto e riannodare il dialogo tra le generazioni. Esso parte dalla convinzione che il problema più grave non sia costituito dai giovani, ma dalla difficoltà degli adulti di assolvere il loro compito educativo. E individua la
radice di questa incapacità nella perdita, da parte loro, delle coordinate elementari, indispensabili per un’educazione degna di questo nome: la cura della propria identità (essere), della propria origine e della propria storia (essere-da), della propria dimensione relazionale e comunitaria (essere-con), del senso, nel duplice valore di “significato” e “direzione” (essere-per). Ma per poterle trasmettere ai giovani, queste coordinate devono essere innanzi tutto riscoperte dagli adulti. È dunque agli
educatori che questo testo si rivolge, non certo nell’illusione di poter risolvere i loro problemi, ma per aiutarli ad orientarsi meglio nell’affrontarli."
Sono, infatti, tanti gli approcci che si possono proporre:
Prendiamo in considerazione l’educazione come sfida della libertà. L’idea fondamentale è che ciò che connota l’essere umano è, più dell’intelligenza, la libertà:
Ecco i principi fondamentali del metodo montessoriano sull'educazione del bambino, tratti dal libro "Educare
alla libertà" di Maria Montessori. 
"Il piccolo" scrive la Montessori, "rivela se stesso solo quando è lasciato libero di esprimersi, non quando viene coartato da qualche schema educativo o da una disciplina puramente esteriore".
Solo in questo modo il bambino impara ad autoregolarsi.
Infatti secondo la Montessori il bambino per sua natura è serio, disciplinato e amante dell'ordine e messo a contatto con i materiali pedagogici adatti e guidato da un
educatore "umile" e discreto è in grado di autoeducarsi e di dispiegare le sue potenzialità e andare a formare "un'umanità libera e affratellata".
. Non trattate i bambini come fantocci: dategli fiducia e lasciategli eseguire anche i compiti che vi sembrano fuori dalla loro portata. Fateli stare a contatto con la natura e a prendersi cura di piante e animali. Puntate sui loro talenti e non continuata a evidenziarne i difetti. Sono stati scritti più di 100 anni fa ma sono ancora validissimi: ecco i principi
dell'educazione di Maria Montessori, capostipite della pedagogogia moderna che tutto il mondo ci invidia
1) Educare il bambino all'indipendenza 
Servire i bambini significa soffocare le loro capacità. Quindi compito dei genitori e degli educatori è aiutarli a compiere da soli le loro conquiste come imparare a camminare, a correre, a lavarsi.
"La madre che imbocca il bambino senza compiere lo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio, non lo sta educando, lo tratta come un fantoccio. Insegnare a mangiare, a lavarsi, a vestirsi è un lavoro ben più difficile che imboccarlo, lavarlo e vestirlo."
2) Mai impedire a un bambino di fare qualcosa perché è troppo piccolo
Non bisogna giudicare la capacità dei bambini in base all'età e non lasciargli fare qualcosa perché troppo piccoli.
Bisogna dimostrare fiducia e lasciargli svolgere i compiti più facili. Ad esempio un bambino di due anni potrà mettere il pane in tavola, mentre quello di quattro portare i piatti. I bambini sono soddisfatti quando hanno dato il massimo di cui sono capaci e non si vedono esclusi dalla possibilità di esercitarsi.
3) Abituare un bambino a fare con precisione è un ottimo esercizio per sviluppare l'armonia del corpo
I bambini sono naturalmente attratti dai particolari e dal compiere con esattezza determinati atti. Ad esempio, lavarsi le mani diventa per loro un gesto più interessante se gli si insegna che poi devono rimettere il sapone nel posto giusto; oppure versare l'acqua è più divertente se gli si dice di stare attenti a non toccare il bicchiere...
E imparare ad agire con precisione è un ottimo esercizio per armonizzare il corpo e imparare il controllo dei movimenti. Uno degli esercizi più utili consigliati dalla Montessori è insegnare ai piccoli ad apparecchiare con diligenza, servire a tavola, mangiare composti, lavare piatti e riporre le stoviglie.
4) L'educatore montessoriano deve essere un angelo custode che osserva e non interviene quasi mai 
"Il maestro deve ridurre al minimo il proprio intervento. Non è un insegnante che sale in cattedra e dispensa dall'alto il suo sapere, ma deve essere un angelo custode, deve vigilare affinché il bambino non sia intralciato nella sua libera attività. Deve osservare molto e parlare poco."
L'insegnante deve rispettare il bambino che fa un errore, e indirizzarlo a correggersi da solo. Chiaramente l'educatore deve intervenire in modo fermo e deciso quando il bambino fa qualcosa di pericoloso per sé e per gli altri.
5) Mai forzare un bambino a fare qualcosa
Bisogna rispettare il bambino che si vuole riposare da un'attività e si limita a guardare gli altri bambini lavorare. L'educatore non deve forzarlo.
6) Educare al contatto con la natura
Far vivere il più possibile il bambino a contatto con la natura. Perché il sentimento della natura cresce con l'esercizio. Un bambino lasciato in mezzo alla natura tira fuori delle energie muscolari superiori a quello che i genitori pensano.
"Se fate una passeggiata in montagna non prendete il piccolo in braccio, ma lasciatelo libero, mettetevi voi al suo passo, aspettate con pazienza che raccolga un fiore, che osservi un uccellino..."
7) Innaffiare le piante e prendersi cura degli animali abitua alla previdenza
Educate il bambino a prendersi cura degli esseri viventi. Le cure premurose verso piante e animali sono la soddisfazione di uno degli istinti più vivi dell'anima infantile.
"Nessuna cosa è più capace di questa di risvegliare un atteggiamento di previdenza nel piccolo che è abituato a vivere senza pensare al domani. Ma quando sa che gli animali hanno bisogno di lui e che le pianticelle si seccano se non le innaffia, il suo amore va collegando l'atto di oggi con il rinascere del giorno seguente."
8) Sviluppare i talenti e mai parlar male di un bambino
L'educatore deve concentrarsi sul rafforzare e sviluppare ciò che c'è di positivo nel bambino, i suoi pregi e i suoi talenti, in modo che la presenza delle sue capacità possa lasciare sempre meno spazio ai difetti. E mai parlare male del bambino in sua presenza o assenza.
9) L'ambiente scolastico deve essere a misura di bambino
La scuola deve essere un ambiente accogliente e familiare in cui tutti i mobili e gli oggetti (sedie, tavoli, lavandini...) siano modellati sulle misure ed esigenze dei piccoli. I materiali didattici devono essere appositamente studiati, ad esempio: oggetti da montare, incastri, cartoncini... che favoriscono lo sviluppo intellettuale del bambino e permettono l'autocorrezione dell'errore, cioè il bambino capisce subito se un incastro è sbagliato e sarà portato a cercare l'incastro corretto.
Un bambino posto in un ambiente idoneo a contatto con i materiali giusti e sotto la guida di un insegnante attento e discreto potrà sperimentare e affinare le sue immense potenzialità. 
10) I bambini sono i viaggiatori della vita e noi adulti i suoi ciceroni
"Il bambino è come un viaggiatore che osserva le cose nuove e cerca di capire il linguaggio sconosciuto di chi lo circonda. Noi adulti siamo i ciceroni di questi viaggiatori che fanno il loro ingresso nella vita umana..."
Ciceroni che illustrano brevemente l'opera d'arte e conducono il viaggiatore a osservare le cose più belle affinché non perda tempo in cose inutili e trovi godimento e soddisfazione in tutto il suo viaggio!
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Per il Giuseppe Mari (1965), sposato, con due figli. Laureato in Filosofia all'Università di Padova, attualmente professore ordinario di Pedagogia generale all'Università Cattolica di Milano. Volumi pubblicati, tutti presso La Scuola di Brescia: 'Oltre il frammento. L'educazione della coscienza e le sfide del postmoderno' (1995); 'Educare dopo l'ideologia' (1996); 'Razionalità metafisica e pensare pedagogico' (1998); 'Pedagogia cristiana come pedagogia dell'essere' (2001); 'L'agire educativo tra antichità e mondo moderno' (2003); 'Pedagogia in prospettiva aristotelica' (2007).
Per motivi professionali, ma anche di passione, studia le problematiche educative 
"Sappiamo come l’educazione sia una dinamica evidentemente molto complessa. La si può avvicinare in molti modi, grazie a Dio è inesauribile, come è inesauribile l’essere umano nella sua identità: è forse la dinamica che più di ogni altra connota l’essere umano e quindi rispecchia la ricchezza che ci portiamo dentro.
Sono tanti gli approcci che si possono proporre; quello che richiamo è uno e non ritengo che sia né il migliore né quello che sovrasta gli altri; è solo quello nel quale personalmente mi riconosco meglio: l’educazione come sfida della libertà.
L’idea fondamentale è che ciò che connota l’essere umano è, più dell’intelligenza, la libertà. L’intelligenza, infatti, l’hanno anche gli animali, seppur in misura evidentemente ridotta e in forma diversa dall’essere umano. Ma gli animali non sono liberi, perché l’animale è, come l’essere umano, condizionato dai fattori ambientali, ma, a differenza dell’essere umano, determinato nei suoi comportamenti: infatti i fattori ambientali influiscono direttamente in modo univoco sul comportamento animale.
Nel caso dell’essere umano questo non avviene: noi subiamo molteplici condizionamenti, ma non ne siamo determinati. È questa la condizione che permette la libertà.
La libertà umana non è assoluta, è sempre nello spazio e nel tempo, ma è una condizione che ci permette di sovrastare la realtà ambientale e direi che questo lo abbiamo capito – in ambito educativo – soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quando si è insistito, anche a ragione, sul condizionamento, che può essere pesante, per quanto riguarda le situazioni sociali, ma col tempo è risultato a tutti evidente che non si può da questo presupposto ricavare una disposizione di tipo deterministico. In ragione della libertà umana, talvolta da dove non ci aspetteremmo nulla esce molto e da dove ci aspetteremmo molto non esce niente: qui si esprime il mistero della libertà, croce e delizia della nostra condizione umana.
Ecco perché mi pare importante associare l’educazione a questa sfida che reca con se anche tutte le altre sfide che riguardano più direttamente gli apprendimenti strumentali, le competenze, come si dice oggi. A me sembra, però, che la sfida della libertà comprenda tutte le altre, quindi sappia connotare bene l’educazione. In ultima analisi, se io divento capace di parlare due o tre lingue, se so praticare in modo eccellente la mia professione per quanto concerne i compiti che la riguardano, ma non sono libero, che cosa me ne faccio di tutto questo? La mia vita non ha sapore… Mi domando se non sia questa la radice di un fenomeno che ci interpella riguardo l’educazione che stiamo praticando oggi: il disagio.
Il disagio c’è sempre stato, ma la cosa che ci inquieta oggi è che esprima disagio la generazione più istruita della storia perché non è mai accaduto in nessuna epoca della storia che le giovani generazioni potessero attingere agli anni di scolarità delle generazioni attuali: ma allora da dove viene la fatica di vivere espressa dal disagio? Forse è causata dalla mancata assimilazione dei contenuti in un organico e maturo quadro identitario complessivo.
I tre nuclei attorno a cui strutturo la proposta sono questi:
1) il disagio come sfida all’educazione e quindi come opportunità di riflessione;
2) focalizzare il nesso moralità-libertà, perché, se è vero che l’educazione è collegata alla libertà, allora vuol dire che il vettore morale la riguarda essenzialmente; torno al discorso precedente: prima di imparare a fare qualcosa, dobbiamo imparare ad essere qualcuno: a questo allude il vettore morale nell’educazione;
3) da ultimo una riflessione mirata sull’educazione come conquista della libertà.
Nella seconda chiacchierata vorrei provare con voi a declinare quest’idea nei due ambiti che so vi stanno più a cuore: la scuola come ambiente di educazione che potremmo denominare formale, e l’oratorio come ambiente educativo che potremmo denominare informale.

1) IL PROBLEMA DEL DISAGIO COME SFIDA
Partiamo dal disagio e cerchiamo di cogliere che cosa esso esprime. Chiariamo alcuni termini che lo riguardano, particolarmente disadattamento, disagio, devianza.
Anzitutto: che l’essere umano faccia fatica ad affrontare la vita è normale, perché, mentre l’animale si adatta all’ambiente oppure si estingue (in ragione del fatto che è determinato a comportarsi in un certo modo dal condizionamento ambientale), l’essere umano sperimenta la sfida di un “adattamento” che non è mai passivo, bensì – almeno in parte – intenzionale. In questo senso la persona può andare incontro alla sfida del disadattamento che non va mai vissuta con rassegnazione.
E questo già può farci riflettere su alcune categorie che abbiamo forse utilizzato con troppa disinvoltura. Pensiamo a quando, spesso, negli anni passati abbiamo ridotto l’educazione a socializzazione. La socializzazione è sicuramente una dinamica importante, sia chiaro, ma se socializzazione significa mero adattamento all’ambiente, che fine fa la dimensione morale di cui è portatore l’uomo?
In realtà l’essere umano, quando si adatta all’ambiente, deve anche puntare a trasformare l’ambiente, nel senso che deve puntare a rendere l’ambiente migliore di come l’ha trovato. Quindi non è possibile trattare la dinamica della socialità in termini di puro adattamento. Deve essere invece espressa in tutto il suo vettore trasformativo, dove la trasformazione innanzitutto risponde a una logica di tipo morale: cercare di rendere l’ambiente in cui mi trovo migliore, cioè più vicino alla verità.
Allora, se si rende manifesta una certa fatica ad affrontare la realtà – a questo potremmo ricondurre il disadattamento – non dobbiamo stupirci: è la manifestazione della fatica umana a corrispondere intenzionalmente alle attese della realtà in cui veniamo a trovarci. La cosa diventa più complessa quando questa sfida viene fatta cadere e subentra una sorta di cronicizzazione del disadattamento, un “lasciarsi vivere” che – per le ragioni più diverse – asseconda l’irresponsabilità: qui subentra il disagio vero e proprio, rispetto a cui l’educatore deve cogliere che la situazione diventa più grave.
Pensiamo ai nostri ragazzi e ragazze quando ci trasmettono l’idea di chi si lascia andare, di chi si adegua alla stagnazione rifiutando di assumersi le proprie responsabilità in modo attivo e fattivo. Questo non è più normale, perché pregiudica l’esercizio della libertà che non è mai né conformismo né rassegnazione, ma capacità di orientarsi e far seguire le azioni alle intenzioni. Ed è questo l’elemento che come educatori ci deve inquietare: perché tante energie sembrano faticare molto a darsi una prospettiva?
Quando si supera la soglia della legalità (in riferimento – ovviamente – a leggi giuste), dal disagio generico si passa alla devianza ed evidentemente il discorso si fa ancora più complicato perché, oltre all’oggettiva gravità dei fatti compiuti, c’è una sorta di abbandono della appartenenza comunitaria, con tutto quello che ne può derivare in atteggiamenti e comportamenti irresponsabili.
Direi che l’emergenza disagio oggi è riconosciuta da tutti e sta producendo effetti importanti. Le ultime due riforme della scuola, quella Moratti e quella Fioroni, pongono al centro, inequivocabilmente, l’istanza dell’educazione e proprio su sollecitazione del disagio.
Dopo vent’anni in cui sembrava che educare per la scuola fosse un optional, quando non una sorta di contraddizione in termini, perché si preferiva insistere sul vettore dell’istruzione, assunto come presunto neutro sotto il profilo ideologico (anche se non è così), oggi finalmente si torna a dire con chiarezza che nella scuola si educa. Certo si educa istruendo, come dicono le Indicazioni recentemente emanate dal Ministero, ma appunto si educa.
La riemersione del richiamo educativo, penso sia legata al riconoscimento del problema del disagio, oltre all’altro grande problema che ci viene dalla crescente complessità culturale della nostra società: la multicultura, l’immigrazione… Del resto, l’unico ambiente nel quale transitano tutti, autoctoni ed immigrati, è la scuola. Ecco perché o nella scuola si riesce a costruire un ambiente che permette di entrare dentro una prospettiva di valori condivisi oppure rischiamo domani di avere una società molto diversa da quello che ci aspettiamo oggi.
Dicevo che il fatto che oggi ci inquieta molto è che il disagio si manifesti nonostante l’informazione che i nostri ragazzi maneggiano con grande dimestichezza e disinvoltura, l’istruzione di cui sono dotati, la salute garantita da un monitoraggio regolare fino ai 14 anni d’età. È la generazione che ha gli standard di salute più alti, ma è anche la generazione che pratica più di altre comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica: pensiamo al consumo di sostanze stupefacenti per esempio. E noi sappiamo che tutti sanno perfettamente quello cui vanno incontro se consumano droghe perché l’informazione oggi non fa certo difetto... eppure tutti gli indici dimostrano che il consumo di stupefacenti non è assolutamente in regressione, e questo evidentemente è un problema.
Ora, la domanda che mi pongo e che vi pongo è questa: noi rispetto al disagio ci stiamo interrogando molto e ci stiamo interrogando soprattutto attingendo alle cosiddette scienze umane, ci interroghiamo con gli psicologi, per cogliere le problematiche di questo tipo, con gli sociologi per cogliere le dinamiche che hanno a che fare con la vita sociale; a me sembra che escludiamo o comunque non diamo adeguata considerazione al fatto che questo può essere anche – e soprattutto – un problema morale, dove il riferimento alla moralità è il riferimento alla libertà.
Allora va bene che noi inseguiamo tutte le analisi e le descrizioni possibili di quello che i nostri ragazzi pensano, dicono, fanno… ma da queste analisi siamo certi di ricavare spunti che intercettino il livello morale del problema? O non rischiamo di restare spettatori? Perché è chiaro che le scienze umane molto ci hanno dato e molto continuano a darci, ma hanno un limite intrinseco: per loro natura sono prevalentemente descrittive e non possono che essere così, perché le scienze umane hanno preso forma nella modernità traendo spunto dal paradigma scientifico moderno, che è un paradigma di tipo osservativo e sperimentale, cioè descrittivo.
Ma noi sappiamo che la morale risale a molto prima delle scienze umane, perché la morale non ha un paradigma puramente descrittivo: è anche prescrittiva. E la prescrittività etica è diversa da altre forme di prescrittività, come – ad esempio – quella medica. Far fatica ad affrontare la vita non è indizio di malattia, è indizio di umanità; allora stiamo attenti a non convertire involontariamente il nostro intervento in termini prevalentemente descrittivi, che al limite riconoscono una istanza terapeutica ma non sono pienamente consapevoli che in gioco c’è la sfida della libertà che può essere aiutata dalla terapia ma solo in presenza di una patologia.
Quante volte noi ci diciamo, di fronte ad alcune azioni efferate: “Chi le ha fatte deve essere malato”. Può darsi che sia malato, ma non può darsi che sia incorso in errore? che abbia espresso cattiveria? che abbia commesso il male? Attenzione perché mi sembra che oggi piuttosto spesso noi stiamo confondendo il piano morale con altri piani, non del tutto estranei ad esso, ma nemmeno coincidenti con esso. Forse proprio questo sta molto depotenziando la nostra capacità di intervenire.

2) MORALITÀ E LIBERTÀ
Veniamo ora al secondo passaggio: se il vettore principale, non dico l’unico, ma mi sentirei di dire il principale, dato che qui c’è in gioco la vita umana nella sua capacità di agire concretamente, è morale, quale può essere una lettura che ci aiuti a declinare il problema anche dal punto di vista educativo, intendendo cioè l’educazione come ciò che permette la moralità?
L’educazione è ciò che permette l’esercizio della moralità, perché se non c’è libertà non c’è nemmeno moralità. Del resto, quello che faceva don Bosco (e invita a fare oggi il Rettor Maggiore don Pascual Chavéz nei documenti che mi avete segnalato) è provvedere affinché la povertà e il disagio – come effetto della povertà morale se non di quella materiale – non costituiscano un destino per i nostri ragazzi, ma una sfida a riscattarsi. Il vostro Fondatore, infatti, ricostruiva l’umanità dei suoi ragazzi – che recavano una sfida certamente non inferiore a quella del disagio odierno – attraverso un rapporto personale che sapeva mostrare come la salvezza passi attraverso l’umanizzazione. Dava anche competenze strumentali (pensiamo ad esempio all’apprendimento di un mestiere) ma le calava dentro un percorso di umanizzazione i cui vettori fondamentali erano i sacramenti (a cominciare dalla confessione che ha direttamente a che fare con la libertà).

Distinguerei due categorie: l’agire e il fare.
Cosa connotano l’agire e il fare? 
L’una è categoria più stretta, l’altra è più ampia; direi che la più ampia è il fare: l’essere umano opera nel mondo, interviene, cambia, trasforma e tutto questo lo possiamo ricondurre al fare.
Ma c’è un tipo di fare diverso dal resto ed è l’agire.
Dove sta la differenza tra il fare e l’agire? 
Sta in questo: il fare è descrivibile e obiettivabile, l’agire no.
Facciamo un esempio. Prendiamo l’edificio nel quale ci troviamo ora, è suscettibile di descrizione oggettiva, lo possiamo fotografare raccogliendo in una immagine oggettiva il suo profilo visibile: questo corrisponde al fare, è il risultato evidente del fare. Ma questa medesima costruzione vuole anche trasmettere un’intenzione che va oltre la muta descrizione della fotografia: chi l’ha pensata, chi l’ha progettata, chi l’ha vissuta... non la riconosce come un puro e semplice conglomerato di materiali edili perché vi scorge un senso: questo corrisponde all’agire.
L’agire è ciò che connota l’essere umano, perché l’uomo esprime nelle cose che fa la sua intenzione, e l’intenzione va oltre la descrizione oggettiva, oltre il referto che possiamo dare di quello che viene fatto. La differenza che c’è tra le dighe che fanno i castori e quelle che fanno gli esseri umani è che le prime rispondono a un criterio puramente funzionale, le seconde rispondono anche a un criterio di carattere estetico, cioè sono ricettive di un senso che riflette la singolarità dell’uomo. Tutto questo trasmette un’eccedenza, che è l’eccedenza della libertà umana, come disposizione a oltrepassare la natura, intendendo la natura come ciò che è determinato.
Tutto il pensiero moderno si costruisce attorno alla dialettica tra natura e spirito, che possiamo tradurre con queste due espressioni: ciò che è determinato e ciò che non è determinato. La natura è ciò che è determinato, che si può spiegare in ragione delle cause e degli effetti, ma lo spirito no. Perché – ad esempio – lo spirito, cioè l’agire libero, esprime la motivazione, ma noi non riusciamo a tradurre la motivazione in termini causali, perché se riuscissimo potremmo determinare il comportamento umano. Grazie e Dio non ci riusciamo: è il nostro problema, ma è anche la nostra felice opportunità, perché se riuscissimo a determinare il comportamento umano la libertà non ci sarebbe più.
Dico questo perché credo che, di fronte alla fatica di affrontare l’educazione oggi, dobbiamo anche incoraggiarci, rendendoci conto che se oggi è più difficile fare certe cose non è perché siamo peggiori di quelli che ci hanno preceduti (questo ci vaccina anche rispetto all’idea che siamo migliori, beninteso), ma è perché sono cambiate le circostanze.
Secondo voi è più onesta una persona che non ruba perché non c’è niente da rubare o una persona che non ruba essendoci qualcosa da rubare? Evidentemente la seconda. Oggi, anche perché ci sono tante opportunità, l’educazione diventa più difficile, ma è appunto per questo che diventa anche più significativa. Questo deve incoraggiarci come educatori a volgere la fatica in opportunità. Soprattutto per far cogliere, alle persone che stiamo accompagnando, che le fatiche che stanno affrontando – e noi con loro – non sono solo pesi, ma sono anche vettori che possono condurre ad essere migliori perché sfidano la libertà.
Credo che nel confronto tra l’agire e il fare emerge con forza la sfida dell’oltre passamento della funzionalità e credo che quando noi inciampiamo in questa categoria ci rendiamo conto che non sono discorsi astratti, perché la civiltà nella quale stiamo vivendo oggi è una civiltà che interpreta sempre più il vettore funzionale come vettore di valore. Si tratta evidentemente di un’opportunità, perché la funzionalità rende facili molte cose, ma anche di un rischio, perché la funzionalità è autoreferenziale e per questa ragione, prima o poi, espropria la libertà.
La libertà umana esprime quello che noi siamo al di là di qualunque riferimento strumentale e direi che noi più di altri siamo posti nella condizione di cogliere questo, perché noi (intendendo come noi coloro che si riconoscono nella fede cristiana) da sempre andiamo dicendo che la libertà coincide con l’amore: la frase agostiniana “Ama e fa quello che vuoi”, dove il riferimento all’amore è il riferimento all’agape cioè è il riferimento alla donazione e alla gratuità. Ma se c’è un concetto che fa a pugni con la funzionalità è proprio questo, perché la funzionalità gestisce tutto in termini di spesa e di ricavo e la donazione non c’entra nulla con questa categorizzazione.
L’amore esprime la libertà in quanto, come la libertà, diventa un vettore che manifesta quello che siamo, che pone in seconda battuta gli elementi di carattere funzionale. Quando due persone si amano, non si amano perché l’una si aspetti di ricevere dall’altra qualcosa in contraccambio, altrimenti c’è la caricatura dell’amore. E’ vero che, a causa del peccato, possiamo essere attirati dalla possibilità di “usare” qualcuno, ma nessuno di noi amerebbe scoprire questo a proprio carico. Lo dice bene Agostino: “Molti ho incontrato che volevano ingannare, nessuno che volesse essere ingannato”.
Il riferimento all’agire è un riferimento all’intenzionalità, è un riferimento che va oltre ciò che è utile e ciò che serve, ciò che è contabilizzabile, è un riferimento che allude alla responsabilità. Anche questo concetto mi sembra che sia stato talvolta ridotto a un concetto piuttosto scialbo, perché sembra talvolta che la persona responsabile sia la persona consapevole di quello che fa, confondendo la coscienza di tipo psicologico con la coscienza di tipo morale. Ma non è sufficiente essere consapevoli di quello che si fa per affermare che il nostro agire è responsabile.
Sembra per altri versi che la persona responsabile sia quella che è disposta a pagare per quello che fa. Anche il terrorista kamikaze è disposto a pagare per quello che fa: ci rimette la vita! Ma questo evidentemente non è un comportamento responsabile perché non risponde dell’innocenza delle vittime ma solo del fanatismo dell’assassino.
La responsabilità non si identifica né con la consapevolezza psicologica né con la disponibilità a pagare per quello che si fa, ma è legata alla nostra capacità di rispondere di quello che facciamo all’“altro”. La “voce della coscienza” è appunto l’“io” che diventa “alterità” rispetto a quello che siamo, che ci interpella rispetto a quello che facciamo e ci richiede di non essere corrivi nel far seguire all’aspirazione la realizzazione. Ci domanda di rispondere alla verità di quello che intendiamo fare.
Dicevo prima che l’essere umano, a differenza degli animali, non è determinato dai fattori ambientali endogeni ed esogeni, i geni o le esperienze: è condizionato, ma non è determinato. Allora, vi propongo questa immagine: se noi avviciniamo un bambino piccolo, troviamo che piange quando ha fame e dorme quando ha sonno, vuol dire che vive totalmente assoggettato ai bisogni naturali. Eppure quello stesso bambino sarà capace gradualmente di maturare la disposizione a rinviare la soddisfazione del bisogno se, evidentemente, c’è un motivo per farlo. E’ questo il vettore che guida la libertà alla sua espressione: la capacità di contenere, se non rimuovere, l’istanza del bisogno. Perché la persona libera è quella che (riprendo l’esempio di prima) sente il bisogno alimentare, ma se c’è un motivo per cui questo bisogno vada rinviato, sa farlo; il bambino più è piccolo meno ne è capace.
La libertà si esprime nella capacità molto concreta di contenere il bisogno; in questo senso l’essere umano, piuttosto che nascere libero in atto, nasce libero di liberarsi, cioè disposto a diventare padrone di sé.
E questo ci fa fare i conti con alcune concezioni improprie della libertà che si sono espresse negli ultimi trent’anni.
La prima è quella che potremmo ricondurre alla libertà come spontaneità.
Se avete presente il paesaggio culturale di fine anni Sessanta, primi anni Settanta, era la stagione dei “figli dei fiori”. Direi che questa immagine dice molto di questo modo di concepire la libertà, perché se c’è una cosa spontanea è il fiore: però attenzione, una volta superata l’impressione estetica, ci rendiamo conto che quella spontaneità in realtà è tutta determinismo. Perché nel fiore tutto è prevedibile, avendo evidentemente le variabili biologiche, o meglio botaniche, chiare. Quindi in realtà ci rendiamo conto che questo modo di concepire la spontaneità diminuisce l’essere umano, riducendolo ad un ente vivente e basta. Infatti in quegli anni ha preso forma tutta una deriva di tipo ecologistico, che va molto oltre l’ecologia come custodia dell’ambiente, perché conduce alle forme di post-umanesimo odierno, in base alle quali sembra che l’essere umano, quando non abbraccia comportamenti animali, diventa un problema per l’ecosistema. Ma questo è evidente, perché, se c’è un essere vivente che è perfettamente integrato nell’ecosistema è appunto l’animale, ma in una logica di puro adattamento. Perché non pensare che invece l’essere umano, nell’ecosistema, debba esercitare la libertà come capacità di trasformarlo migliorandolo?
Può sembrare un discorso astratto, ma non è così. Provate a pensare a come negli ultimi trent’anni si è presentata a livello internazionale l’emergenza demografica: come se fossimo in un grande allevamento zootecnico… il puro e semplice computo delle bocche da sfamare. Certo, ci sono le bocche da sfamare, ma queste bocche da sfamare sono anche intelligenze, volontà, libertà che possono contribuire ad affrontare la sfida. Se noi ci fermiamo soltanto al computo delle bocche da sfamare, facciamo come se non esistesse tutta questa componente, ma questo vuol dire non riconoscere l’essere umano per quello che è. Stiamo attenti che è una logica, questa, che tende a catturarci in quanto la funzionalità evidentemente non è estranea alla libertà, ma la libertà supera la funzionalità. Evitiamo di lasciarci suggestionare dalle letture di carattere puramente descrittivo che rischiano di renderci accondiscendenti rispetto a ipotesi di partenza che con la prospettiva cristiana non c’entrano assolutamente niente.
Comunque l’essere umano ha risorse che lo distinguono radicalmente dall’animale, quindi in poco tempo ci si è accorti che questa prospettiva di carattere spontaneista non è adatta alla persona; infatti oggi nessuno la abbraccia più o è molto raro che venga abbracciata.
Se noi interroghiamo i nostri ragazzi, difficilmente qualcuno ci dirà che la persona libera è la persona spontanea, piuttosto è facile che dicano che la persona libera è la persona che può scegliere: è questa infatti è la categorizzazione di libertà che l’ha fatta da padrone negli ultimi vent’anni.
Si tratta di un richiamo molto intrigante, perché ci rendiamo conto che la possibilità di scegliere è molto vicina alla verità, richiama la libertà d’arbitrio, che sicuramente è sconosciuta al mondo animale, quindi è molto più vicina a quello che noi siamo.
Ma dove sta il limite di una libertà interpretata solo come arbitrio?
Io credo che stia in questo (richiamo alcune riflessioni agostiniane): la libertà d’arbitrio va liberata a sua volta, perché rappresenta una libertas minor sovrastata da una libertas maior che consiste nello scegliere il bene, non nel poter scegliere tra il bene e il male (anche perché, dice Agostino, in realtà il male è un bene deficitario).
Credo che noi oggi cominciamo a renderci conto della insufficienza della libertà ridotta a puro arbitrio, perché ci rendiamo sempre più conto del fatto che solo apparentemente scegliamo tra alternative mentre in realtà qualcuno ha gia scelto per noi. È un po’ la libertà del supermercato: io vado nella corsia del supermercato, trovo venti marche di biscotti e posso credere che scegliendo tra queste esercito la mia libertà. Attenzione perché queste marche qualcuno le ha già selezionate per me. E allora? Che libertà esercito io in realtà?
In realtà, al di là dei pesanti condizionamenti oggi esercitati dai media volti a promuovere il conformismo, il problema della libertà d’arbitrio è intrinseco alla condizione umana che, essendo limitata, non può concepirsi come assoluta cioè deve fare i conti, quando è chiamata a scegliere, non soltanto con la facoltà di scelta ma anche con l’oggetto della scelta. Faccio un esempio. Io posso avere davanti due bicchieri: in uno c’è una bevanda innocua e nell’altro c’è un veleno. Domando: io sono libero se posso scegliere tra la bevanda e il veleno, o sono libero se scelgo la bevanda e rifiuto il veleno?
Questo vuol dire allora che in realtà non sono libero se posso scegliere, io sono libero se so scegliere!
Questa può essere una chiave che ci aiuta ad affrontare le questioni che prima toccavo. Pensiamo alle tossicodipendenze: è chiaro che il consumo di sostanze esercita un richiamo forte: è il richiamo di un’esperienza psicofisica alterata, di una suggestione che reca piacere. Ma, se io gioco tutto sull’idea che sono libero perché posso scegliere tra il consumare la sostanza e il non consumare la sostanza, io appiattisco due ipotesi che in realtà sono molto diverse.
Credo che a questo punto sia importante cogliere che l’istanza di fondo è nella capacità di educare al controllo del desiderio.
La libertà è legata al desiderio, ma o siamo capaci di contenere, guidare, controllare il desiderio (sapendo che questa è una conquista che non è mai avvenuta per sempre, per nessuno, ma almeno mi metto su questa strada, almeno spingo qualcuno ad andarci, così avremo la possibilità che qualcuno diventi capace di saper scegliere o che almeno ci provi) o ci consegniamo a una deriva che in ultima analisi asseconda il desiderio indiscriminatamente. Ma appunto perché lo asseconda ci riduce a una condizione infraumana perché ci rende assoggettati al bisogno.
Dove sta la differenza tra il bisogno e il desiderio?
 Sta in questo: mentre il bisogno mette in campo una dinamica di carattere deterministico che ci trova passivi, il desiderio, che pure può scaturire anche dal bisogno, reca un’eccedenza che va nel senso della disposizione ad essere attivi, responsabili, capaci di limitarci.
Credo che ci sia un fatto che sotto questo profilo deve farci riflettere: a me sembra che le diverse fattispecie del disagio, dalla tossicodipendenza alla microcriminalità, alle esperienze eccentriche, alle anoressie, alle patologie di questo tipo, eccetera, abbia un vettore comune, la corporeità!
Nella nostra civiltà sta esplodendo il problema del corpo. Forse perché il vettore oggettivante, funzionale, strumentale, senza che ce ne accorgessimo, è arrivato a colonizzare il corpo, facendo credere che lo si possa sottoporre a uso. Ma la categoria dell’uso è radicalmente incongrua con il corpo, perché il corpo è la nostra identità visibile, esattamente come l’anima è la nostra identità invisibile.
Noi non abbiamo un corpo, noi siamo un corpo e solo noi esseri umani possiamo affermare questo. E il fatto che il nostro corpo siamo ancora noi stessi, è quello che può essere associato alla categoria di corporeità, quello che Edith Stein chiama “corpo vivente spirituale”, cioè il fatto che il nostro corpo, pur essendo fisicità e, in quanto tale, vettore di bisogni, non è soltanto questo, è anche capacità di esprimere, comunicare, testimoniare e trasmettere quello che siamo cioè la nostra eccedenza rispetto al bisogno.
E noi, più di altri, dovremmo essere sensibili a questo, perché è l’esperienza dei grandi mistici cristiani (non so quale sia quella delle altre religioni, ma sicuramente dei nostri, pensate a figure come Teresa d’Avila e Giovanni della Croce). A cosa arrivano infatti a paragonare l’estasi mistica? All’unione coniugale. Ma noi sappiamo che questa è la categoria che nell’Antico Testamento ricorre con grande frequenza, per parlare del rapporto tra il Creatore e la creatura, e la ritroviamo anche nel Nuovo Testamento quando Paolo dice che il mistero dell’unione tra un uomo e una donna è grande in riferimento al mistero dell’unione tra Cristo e la Chiesa. Ora, se l’autore sacro ha avvicinato il rapporto con Dio al rapporto coniugale, significa che la fisicità di quest’ultimo trasmette qualcosa di ulteriore, spirituale. Questo è quanto manifesta la corporeità: fisicità che va oltre la materia perché testimonia la spiritualità della persona.

3) L’EDUCAZIONE COME CONQUISTA DELLA LIBERTÀ
Se è vero quello che ci siamo detti finora, si tratta – sul terreno pedagogico – di porre con forza l’esigenza di oltrepassare le competenze strumentali nella pratica educativa, perché è vero che educare qualcuno significa fare in modo che arrivi a leggere, scrivere, a far di conto (come si diceva una volta), ma – insieme e più di questo – significa far conseguire la maturità. In ultima analisi, questa sfida corrisponde bene alla domanda che troviamo nella Scrittura: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo se perde la sua anima?”. Noi stiamo guadagnando il mondo, perché stiamo conquistando sotto il profilo strumentale tutto quello che si può usare, ma rischiamo di perdere l’anima. I nostri ragazzi sono le spie di questo problema, che riguarda anche noi adulti, ma insomma noi adulti bene o male ci barcameniamo, i ragazzi invece lo vivono in presa diretta, e quindi grazie a Dio che ci danno questo segnale forte, che però per noi deve essere la sfida a rivedere l’idea di civiltà, anche educativa, che abbiamo abbracciato.
Se si tratta di andare oltre le competenze strumentali, cioè oltre l’avere, oltre il fare, per pensare all’essere, che cosa si può dire a proposito?
Che la libertà diventa effettivamente il vettore lungo il quale si costruisce l’educazione, intesa come la graduale capacità di appropriarsi di sé, di diventare liberi, nel senso di diventare capaci di non farci assoggettare dal bisogno. Solo così saprò usare le competenze strumentali senza farmi usare, perché altrimenti rischio di lasciarmi a mia volta colonizzare da questa modalità funzionale e strumentale di concepire la vita.

Cerchiamo di calare tutto ciò su alcune questioni concrete.
Penso che, dentro a questa libertà come appropriazione di sé, ci stia forte l’istanza di fare i conti con il limite. Infatti i nostri ragazzi faticano a gestire il limite: ma c’è identità senza limite?
Prendiamo un foglio bianco. Perché da questo foglio indistinto esca qualcosa, devo tracciare un contorno, e il limite è il contorno, dinamico quanto vogliamo, ma ci deve essere se mi devo distinguere dal resto. Interroghiamoci quindi su quanto noi facciamo fare esperienza del limite ai nostri ragazzi, per fare in modo che, in ragione di questo, arrivino a darsi un’identità.

Che nesso c’è tra il limite e la libertà?
Credo che possa essere espresso così: se è vero che la persona libera è quella che riesce a limitare se stessa, cioè a limitare il suo desiderio, vuol dire che la persona libera è la persona che riesce ad essere autorità per se stessa.
Ma noi diventiamo autorità per noi stessi se abbiamo fatto esperienza dell’autorità di qualcun altro. Io maturo la capacità di autolimitarmi se ho fatto esperienza di qualcuno che mi ha limitato, perché, se questa esperienza nessuno me l’ha mai fatta fare, semplicemente non sarò capace di farlo.
Ecco in che senso la libertà paradossalmente è generata dall’autorità, perché se essere libero significa essere autorità per me stesso, devo aver avuto qualcuno che mi ha fatto fare esperienza, attraverso la sua autorità, del fatto che io posso limitare me stesso.
Quale autorità?
Occorre distinguere evidentemente tra l’autorevolezza e l’autoritarismo, anche perché sappiamo che, nella svolta culturale degli anni Sessanta-Settanta, sulla parola autorità si è scaricato ogni genere di critica. Personalmente credo che le polemiche rivolte contro l’autorità siano pertinenti se le rivolgiamo all’autoritarismo, ma non se le rivolgiamo all’autorità in senso autentico.
Come distinguere tra le due cose?
Vi propongo questa distinzione: la persona autoritaria è il tiranno, che impone agli altri limiti dai quali lui si sottrae. E perché se ne sottrae? Perché ritiene di essere lui la fonte del bene e del male e quindi, in ragione di questo, si ritiene legittimato a imporre limiti agli altri come – appunto – fanno i tiranni.
Ma la persona che esercita l’autorità in senso vero, quella che “fa crescere” (auctoritas dal latino augere, “far crescere”), la persona autorevole, opera diversamente perché, non riconoscendo in se stessa la fonte del limite, ma riconoscendola in qualcosa di superiore (la verità), essa stessa si assoggetta per prima ai limiti che pone agli altri.
La persona che esercita l’autorità educativa, in senso autentico, per prima si assoggetta ai limiti che pone agli altri, è testimone: ecco perché è più facile dire di sì ai nostri ragazzi che dire di no: perché se io dico di sì a loro, in realtà dico di sì a me stesso, sollevo me stesso dall’onere di praticare alcuni comportamenti.
Ecco perché c’è una china discendente, e l’abbiamo vista in questi quarant’anni, lungo il crinale dell’autorità: è la deriva volta ad assecondare, me stesso prima che gli altri, rispetto alla quale faccio due considerazioni.
La prima è che a questo punto dobbiamo avere il coraggio di smascherare una falsità: non è vero che chi si dimostra incline ad assecondare l’altro esprime necessariamente generosità, liberalità, attenzione, rispetto; può semplicemente esprimere il suo egoismo, cioè il fatto che dell’altro non gliene importa assolutamente niente, perché ha innanzitutto in mente di assecondare se stesso.
La seconda è una domanda: perché questa china discendente ad un certo punto va incontro all’inversione vettoriale (e credo che oggi siamo di fronte a questo fenomeno)?
Perché questa china discendente, volta ad assecondare sempre di più il desiderio, il bisogno eccetera, abbassando il livello dell’attesa, cioè rimuovendo l’alterità (intesa come ciò che limita), va a sbattere ad un certo punto contro il muro. Il muro di che cosa? Il muro della vita, perché la vita è alterità, in quanto io non ho alcuna certezza di quello che mi capiterà tra un secondo.
Io mi trovo costantemente investito da situazioni che mi limitano nei miei desideri, e non è detto che io sia sempre capace di vincere queste limitazioni, posso anche dover accettare che di fronte a me ho una barriera insormontabile e non vi sembra questo il problema delle giovani generazioni di oggi? Dato che le abbiamo assecondate alimentando in loro l’aspirazione a fagocitare tutto, dando la stura ai loro desideri, queste vanno in crisi quando trovano una condizione che le impedisce in questa affermazione.
In altre parole, crescono come dei palloni, che sembrano forti solo perché si espandono in ragione dell’assenza di ostacoli, ma in realtà basta la punta di uno spillo per farli scoppiare: sono intimamente fragili. Quando trovano l’ostacolo, la frustrazione, questi ragazzi vanno in crisi. Ecco perché noi oggi ci troviamo a riscoprire il limite; infatti cosa dicono tutti gli psicologi che vanno in televisione a margine dei fatti aberranti che accadono? Che occorre tornare a parlare di regole. L’avrebbero detto trent’anni fa? Non credo; ma la regola è appunto un fattore limitante, ed è facendo i conti con la regola che io mi alleno a limitare il mio desiderio e quindi mi preparo ad affrontare la vita come sfida continua, che mi chiede il decentramento.
Credo che questa condizione, di una libertà limitata appunto anche se dinamica, propria di chi non si percepisce come assoluto, sia una condizione perfettamente coerente col fatto che noi crediamo che l’essere umano è creatura.
Dentro questa nostra creaturalità ci sta tutto il paradosso di quello che siamo e che Tommaso d’Aquino esprime con un’immagine molto bella.
Quando affronta il tema dell’uomo creato a immagine di Dio, afferma che configura una situazione analoga a quella che riguarda chi si specchia. Se noi ci specchiamo, l’immagine riflessa nello specchio è identica a noi e contemporaneamente radicalmente diversa da noi. Dentro questa identità e differenza si gioca tutta la drammaticità della condizione umana, che assomiglia alla condizione divina (Dio come assoluto, la libertà umana come “causa di sé” pratica), ma contemporaneamente fa i conti con il limite (la vita umana che non è “causa di sé”).
Penso peraltro che questa disposizione stia riemergendo nella cultura contemporanea, la quale sta riscoprendo il finito. Pensate al vettore culturale cosiddetto neopagano: è chiaro che per noi cristiani rappresenta una sfida radicale, ma è altrettanto evidente che, rispetto alla pretesa assoluta avanzata da una certa modernità che snobba la fede, costituisce una opportunità per portare l’annuncio di un finito che non basta a se stesso. Credo che sia una sponda utile per noi, a patto che non ci rassegniamo al gioco, perché per noi la finitezza non è finis,cioè confine che racchiude “al di qua”, ma limen cioè frontiera che sporge “al di là”.
In questo senso faccio due considerazioni.
La prima è che il vettore di tipo assolutizzante, prevalso nella modernità, ha trovato una bella espressione di sé nella formula nicciana dell’Übermensch. Quando Nietzsche parla dell’Übermensch, parla dell’oltre uomo , cioè del fatto che l’essere umano deve venir superato per come noi lo conosciamo, con i suoi limiti, e deve diventare qualcos’altro. Non vi sembra che questa idea stia alla radice di alcune prospettive d’ambito biotecnologico? Noi stiamo cercando di creare l’Übermensch attraverso il mutamento della natura umana. Ma questo è collegato al senso della libertà perché è la nostra libertà che ci permette di non rassegnarci all’esistente fattuale; contemporaneamente, tuttavia, la nostra libertà, non essendo assoluta, ci interpella ad essere responsabili cioè a rispondere di quello che intendiamo fare.
Oggi siamo sensibili al richiamo della libertà: d’altronde Hegel definiva l’uomo moderno “libera soggettività autocosciente”, e chi di noi vorrebbe tornare ad un mondo nel quale si subisce l’assoggettamento? Nessuno. Questo però non significa che possiamo cancellare il limite intrinseco alla nostra natura creaturale, e che affiora anche da un punto di vista laico quando si abbia il coraggio di guardare in faccia alla realtà. Ma il limite è solo vettore negativo oppure esprime anche qualcosa di positivo? L’esperienza dell’amore depone in questo secondo senso. Quando amo qualcuno, mi rendo conto che sono limitato e che mi compio attraverso colui che amo: è il vettore che gli antichi associavano ad eros. Oltre ad esso, però, c’è l’agape, cioè l’amore espresso come ricchezza che volge alla donazione, come ci ha insegnato Dio in Cristo. Allora, il mio limite può essere anche l’occasione per amare l’altro in quanto mi pone di fronte alla mia non autosufficienza, ma questo, lungi dal sancire la mia povertà, può arrivare ad esprimere la mia ricchezza se aderisco all’agape a cui Dio mi chiama in Cristo. A questo punto scopro che, paradossalmente, la mia libertà coincide con il vincolo d’amore che so stringere con l’altro e che mi emancipa dal narcisismo a cui mi volge la prospettiva dell’Übermensch che banalmente si esprime nel quotidiano inseguimento della soddisfazione egoistica.
Credo che ci sia nella vita umana una esperienza almeno, che esprime fortemente questa condizione ed è l’esperienza della coniugalità. E forse a questo punto comprendiamo perché l’autore sacro avvicini al rapporto tra Creatore e creatura proprio questa fattispecie, dove la coniugalità evidentemente va declinata sia nell’ordine della carne sia nell’ordine dello spirito, il celibato/nubilato consacrato configuarndo – nella prospettiva cattolica – non la condizione dello scapolo o della zitella ma quella della sponsalità spirituale. Il paradosso è quello del vincolo che libera. Possiamo, così, concludere che l’educazione introduce nella libertà come capacità di costruire vincoli liberanti perché decentrano rispetto al richiamo narcisista del “sé”. E’ questo peraltro anche il senso della “persona”, espressione che declina l’individualità come volta alla relazione: con Dio, con sé, con gli altri e con il mondo. A partire dalla famiglia nella quale siamo stati generati, attraverso la Chiesa che è la famiglia dei figli di Dio, approdiamo a riconoscere la comune appartenenza alla famiglia umana.
(fine prima parte)

(Quaderni Cannibali) Ottobre 2007 - autore: Giuseppe Mari 
Via dei Salesiani 15, Mestre - V


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