Anche òa rivista mensile Excursus composta
da giovani redattori, alcuni dei quali già giornalisti e con passate
esperienze in altre testate, guidati, nel migliore spirito che anima la
rivista, da amore per la cultura, passione per il giornalismo e
l’editoria e professionalità. attraverso la Dott Domenica Riggio, ha voluto presentare ai lettori un opera del nostro cocittadino , scrittore Filippo Lo Schiavo , le Cinque narrazioni di vita, di amore, di dolore e di inganno raccontate in un volume pubblicato da Pungitopo Editrice La riscoperta di un profondo legame attraverso la memoria
«Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore. Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante» (Raimond Panikkar). Il senso d’identità, di appartenenza, di ancorato attaccamento alla propria terra è ciò che contraddistingue Filippo Lo Schiavo, scrittore milazzese nel cui libro I racconti del dongione (Pungitopo Editrice, pp.144, € 14,00) riaffiorano i ricordi della terra d’origine, del paese di pescatori e di donne pazienti, di marchesi e marchese, di signori e signorotti, di uomini di Chiesa e umili frati o aspiranti tali. Come un mosaico, l’autore, tassello dopo tassello, riesce a far emergere tutti i colori, i chiaroscuri, tutte le prospettive rievocando odori, profumi, tradizioni, delineando una realtà dai contorni non sempre uniformi, non sempre chiari. «Lo spirito era ciò che la loro mente creava; era l’incoscienza della loro ragione, erano i pensieri senza realtà che li portavano via dalla durezza della vita di tutti i giorni». I personaggi vengono descritti con cura, con particolare attenzione, a volte con tenerezza, e animano le pagine di un libro improntato sulla nostalgica reminescenza e sulla fervida descrizione di una cittadina che ha assistito inerme allo sfruttamento e alla devastazione delle sue bellezze e delle sue ricchezze. «La tonnara non fu certo luogo di etica, piuttosto di sfruttamento minorile, di adolescenza negata e di un popolo logorato dall’ingiustizia, dall’emarginazione e dalla disparità sociale. Fu sempre il mondo dei vinti, degli sconfitti, dei pescatori milazzesi costretti a vivere in misere condizioni economiche ed affettive». Avvenimenti che si succedono in un tempo che è quello di Bartolino e della festa del «Santu Patri», per la quale «l’atmosfera era satura di aspettativa e di tanta gioia per l’avvicinarsi del giorno della festa». Bartolino e il suo ramarro dorato e lo zio canonico, Bartolino e la sua ingenua immaginazione. «Bastava poco per trasportarvi con la fantasia quei magnifici velieri e lasciarsi guidare dall’immaginazione per solcare mari e oceani». E ancora, il tempo dei «rasi», di Stefano il bisnonno e di Masi il nonno, di Salvatore il padre e di Masi nipote e figlio che amabilmente racconta la sua generazione di capi della tonnara di Vaccarella. «Il destino della mia famiglia – continua l’ottantaduenne Masi – fu sempre lo stesso. Di picciriddi, ppi nnui a tunnara era tuttu». Segue il tempo di Nino, un povero ragazzetto il cui destino sarà con lui beffardo. «Il prete, ben conoscendo le disperate condizioni della famiglia, si era dato da fare per sistemare in qualche convento dei dintorni Nino […]. Questa era una prassi consolidata in quel mondo pieno di poveri e affamati e dava la possibilità al clero di riempire i seminari con giovani che si ritrovavano con l’essere forzati aspiranti all’abito religioso». Infine è il tempo di Vincenza, di Nanna e Pasqualina, tre sorelle illustrate con una sensibilità tale da sfiorare l’intellettiva emotività del lettore. «Nate e cresciute in quello spazio fisico di solitudine, miseria ed emarginazione, la loro vicenda presentava una sconcertante diversità rispetto alla realtà vissuta dai loro simili, favorita dalla scarsa umanità mostrata nei lori confronti». Tre donne abbandonate all’indifferenza di una società eclissata dalle brutalità della guerra, in una Sicilia superstiziosa come quella di quegli anni e sopraffatta da preconcetti che sfociano in disarmante ignoranza. Tre figure femminili forti, forti nel loro dolore, nella loro disperazione. «La solitudine può tingersi di colori cupi quando è legata alla perdita, all’abbandono, all’isolamento, alla malattia ed è qui che si nota quanto questo sentimento sia fortemente legato al proprio senso di identità. E nelle tre sorelle l’identità si era strutturata, sin dalla più tenera età […]». Cinque racconti sugli usi, sui costumi, sui luoghi che hanno lasciato una traccia profonda e intensa nello scrittore che mira a far conoscere la storia più intima di una piccola città siciliana che in passato ha avuto un peso economico molto rilevante. Una volontà di far emergere e scoprire realtà e verità lontane nel tempo, ma vicine nella coscienza. Come il dongione, questo libro, dall’alto delle sue narrazioni, osserva e liberamente riporta ciò che vede e trasmette ciò che percepisce. Domenica Riggio (www.excursus.org, anno V, n. 45, aprile 2013)
«Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore. Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante» (Raimond Panikkar). Il senso d’identità, di appartenenza, di ancorato attaccamento alla propria terra è ciò che contraddistingue Filippo Lo Schiavo, scrittore milazzese nel cui libro I racconti del dongione (Pungitopo Editrice, pp.144, € 14,00) riaffiorano i ricordi della terra d’origine, del paese di pescatori e di donne pazienti, di marchesi e marchese, di signori e signorotti, di uomini di Chiesa e umili frati o aspiranti tali. Come un mosaico, l’autore, tassello dopo tassello, riesce a far emergere tutti i colori, i chiaroscuri, tutte le prospettive rievocando odori, profumi, tradizioni, delineando una realtà dai contorni non sempre uniformi, non sempre chiari. «Lo spirito era ciò che la loro mente creava; era l’incoscienza della loro ragione, erano i pensieri senza realtà che li portavano via dalla durezza della vita di tutti i giorni». I personaggi vengono descritti con cura, con particolare attenzione, a volte con tenerezza, e animano le pagine di un libro improntato sulla nostalgica reminescenza e sulla fervida descrizione di una cittadina che ha assistito inerme allo sfruttamento e alla devastazione delle sue bellezze e delle sue ricchezze. «La tonnara non fu certo luogo di etica, piuttosto di sfruttamento minorile, di adolescenza negata e di un popolo logorato dall’ingiustizia, dall’emarginazione e dalla disparità sociale. Fu sempre il mondo dei vinti, degli sconfitti, dei pescatori milazzesi costretti a vivere in misere condizioni economiche ed affettive». Avvenimenti che si succedono in un tempo che è quello di Bartolino e della festa del «Santu Patri», per la quale «l’atmosfera era satura di aspettativa e di tanta gioia per l’avvicinarsi del giorno della festa». Bartolino e il suo ramarro dorato e lo zio canonico, Bartolino e la sua ingenua immaginazione. «Bastava poco per trasportarvi con la fantasia quei magnifici velieri e lasciarsi guidare dall’immaginazione per solcare mari e oceani». E ancora, il tempo dei «rasi», di Stefano il bisnonno e di Masi il nonno, di Salvatore il padre e di Masi nipote e figlio che amabilmente racconta la sua generazione di capi della tonnara di Vaccarella. «Il destino della mia famiglia – continua l’ottantaduenne Masi – fu sempre lo stesso. Di picciriddi, ppi nnui a tunnara era tuttu». Segue il tempo di Nino, un povero ragazzetto il cui destino sarà con lui beffardo. «Il prete, ben conoscendo le disperate condizioni della famiglia, si era dato da fare per sistemare in qualche convento dei dintorni Nino […]. Questa era una prassi consolidata in quel mondo pieno di poveri e affamati e dava la possibilità al clero di riempire i seminari con giovani che si ritrovavano con l’essere forzati aspiranti all’abito religioso». Infine è il tempo di Vincenza, di Nanna e Pasqualina, tre sorelle illustrate con una sensibilità tale da sfiorare l’intellettiva emotività del lettore. «Nate e cresciute in quello spazio fisico di solitudine, miseria ed emarginazione, la loro vicenda presentava una sconcertante diversità rispetto alla realtà vissuta dai loro simili, favorita dalla scarsa umanità mostrata nei lori confronti». Tre donne abbandonate all’indifferenza di una società eclissata dalle brutalità della guerra, in una Sicilia superstiziosa come quella di quegli anni e sopraffatta da preconcetti che sfociano in disarmante ignoranza. Tre figure femminili forti, forti nel loro dolore, nella loro disperazione. «La solitudine può tingersi di colori cupi quando è legata alla perdita, all’abbandono, all’isolamento, alla malattia ed è qui che si nota quanto questo sentimento sia fortemente legato al proprio senso di identità. E nelle tre sorelle l’identità si era strutturata, sin dalla più tenera età […]». Cinque racconti sugli usi, sui costumi, sui luoghi che hanno lasciato una traccia profonda e intensa nello scrittore che mira a far conoscere la storia più intima di una piccola città siciliana che in passato ha avuto un peso economico molto rilevante. Una volontà di far emergere e scoprire realtà e verità lontane nel tempo, ma vicine nella coscienza. Come il dongione, questo libro, dall’alto delle sue narrazioni, osserva e liberamente riporta ciò che vede e trasmette ciò che percepisce. Domenica Riggio (www.excursus.org, anno V, n. 45, aprile 2013)