Un viaggio al femminile nelle
profondità più buie dei silenzi e delle parole. Le storie delle donne
che hanno cercato e cercano di sconfiggere la viralità – e la virilità –
della cultura 'ndranghetista
«Restare qui, e restare una persona perbene è l’unico modo di rispettare quello che ha fatto papà». Ha la voce di Stefania Grasso la frase che meglio racchiude il senso di Io parlo – donne ribelli in terra di ’ndrangheta di Francesca Chirico, pubblicato da Castelvecchi. È uscito a marzo, sta facendo il giro della Calabria e non solo.
Molto
spesso nelle presentazioni accanto all’autrice c’è Michele Prestipino,
il procuratore aggiunto Dda di Reggio Calabria, che ha scritto la
prefazione e aggiunge altre parole alle tante contenute nel libro. È
importante ed utile ascoltarli duettare, andare oltre il visto si
stampi. Ma è ancora più importante trovare il tempo – nemmeno troppo, in
realtà: si legge veloce, scorre via come le storie di cui fissa per
sempre la memoria – per trovare tra le pagine l’essenza stessa della
ribellione. La natura più intima dell’essere donna in questa terra “che
si mangia le persone”, per dirla con la crudezza utilizzata dall’autrice
nel raccontare l’approccio di Angela Casella al percorso che le
permetterà di riavere il figlio rapito nel 1988.
È brava, Francesca. Ma questo lo
sapevamo da tempo. Ha una scrittura pulita, documentata, che racchiude
un vortice senza fine di umanità e di sentimenti nell’apparente
asetticità con cui ricostruisce le sue – le nostre – storie. Sono
proprio il taglio (solo apparentemente) giornalistico, il suo modo lieve
di mettere sul piatto l’incalzare degli eventi, la misura nello
snocciolare fonti e fatti, il suo non indulgere sulla via troppo facile
delle emozioni a dare un respiro alto alla lettura. Trovi, qua e là,
lame che ti si conficcano dentro per non uscire più. Lame che conosci e
ti fanno male da tempo, ma che ti feriscono ancora, di un dolore nuovo.
Ferite vive, con tanti nomi. Quello di Rossella Casini: “E alla fine
l’hanno espulsa, con il suo accento fiorentino e i suoi costumi
«nordici», come un elemento estraneo e dannoso alla conservazione del
sistema”. E di Marianna Rombolà: “Le donne calabresi? «Continuano a piangere in casa».” Quello della speranza di Deborah Cartisano: una speranza che “nata in mezzo a tutta quella sofferenza, è riuscita a conficcarsi fin dentro le pietre”. Quello di “per l’età avanzata, per l’inesperienza e per quel titolo nobiliare che fa a pugni con la fatica dei campi”. E di Cetta Cacciola: “«Questo
è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita». Il 20 agosto
2011, nel bagno di casa, la donna decide che non vuole tenersi più
neppure la vita”. Nomi noti, nomi conosciuti: da Adriana Musella a
Liliana Carbone, da Rosanna Scopelliti ad Anna Maria Scarfò, passando
per le tante donne di cui Chirico ritesse il coraggio di spezzare per
sempre la viralità di una cultura, quella ’ndranghetista, che può essere
sconfitta. Parola di Denise Cosco e Lea Garofalo. Di Simona Napoli, di
Tita Buccafusca, di tutte le “nemiche di «famiglia»” che vanno e sono andate, consapevolmente e pagandone il caro prezzo, contro la legge, quella secondo la quale «chi tradisce e disonora la famiglia deve essere punito con la vita».
Teresa Cordopatri, derisa
Mi sono chiesta a più riprese, ripercorrendo tra le pagine di Io parlo
le vite di donne simbolo del riscatto di Calabria, quale sarà l’impatto
su chi non ne conosce i drammi, e si troverà per la prima volta di
fronte alle loro urla dirompenti. Servirà per uscire dal pregiudizio
Calabria=’ndrangheta? O confermerà l’idea che la barbarie che fa da
triste filo conduttore dell’intero libro esiste e continuerà ad
esistere?
La risposta è arrivata chiara con l’immagine che chiude l’ultimo capitolo, coniugato come gli altri su brani tratti dalla Cassandra di Christa Wolf.
Un’immagine bruciata: quella della mini cooper di Fabrizio Pioli, il cui corpo è stato ritrovato dopo l’uscita del libro, grazie alla confessione di uno dei suoi assassini, il padre della ragazza colpevole di amarlo e di esserne riamata. Un’immagine che può cambiare radicalmente il peso, di gramsciana memoria, che si racchiude nel termine indifferenza: solo gli occhi di chi leggerà, solo le domande di chi respirerà le vite sospese, che pesano come i macigni delle parole di Francesca Chirico, potranno dare un senso compiuto – mi piacerebbe scrivere definitivo – alla voglia di riscatto della Calabria che vuole e ce la può fare.
Un’immagine bruciata: quella della mini cooper di Fabrizio Pioli, il cui corpo è stato ritrovato dopo l’uscita del libro, grazie alla confessione di uno dei suoi assassini, il padre della ragazza colpevole di amarlo e di esserne riamata. Un’immagine che può cambiare radicalmente il peso, di gramsciana memoria, che si racchiude nel termine indifferenza: solo gli occhi di chi leggerà, solo le domande di chi respirerà le vite sospese, che pesano come i macigni delle parole di Francesca Chirico, potranno dare un senso compiuto – mi piacerebbe scrivere definitivo – alla voglia di riscatto della Calabria che vuole e ce la può fare.
(Fonte Paola Bottero)