CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SUGLI INGLESI
E LA SICILIA NEGLI ESITI DEI SEMINARI SU INGHAM E I WHITAKER
(Relazione
di Rosario Battaglia in atti del seminario di studio "I
Whitaker di villa Malfitano",
tenutosi in Palermo il
16 - 18 marzo 1995 su
"I Whitaker di villa Malfitano" a
cura di Rosario Lentini e Pietro Silvestri, pubblicati dalla Fondazione "Giuseppe
Whitaker" con il patrocino dell'Assessorato dei beni culturali, ambientali
e della pubblica istruzione della Regione siciliana nel dicembre 1995.)
E' sempre difficile per chi ha il compito di un intervento
conclusivo e dunque valutativo di un seminario di studi, quanto mai ricco e
interessante, sintetizzare Studi importanti
e significativi sulla presenza degli Inglesi nella Sicilia dell'Ottocento. Pertanto
più che soffermarsi su singoli contributi o su specifici interventi, da cui
è emersa l'ampiezza dell'azione della famiglia Ingham-Whitaker in settori ben
diversi da quelli puramente economici - comunque altrettanto importanti e significativi
sul versante culturale e scientifico come l'ornitologia e l'archeologia - limiterò
allora il mio intervento ad alcune considerazioni che mi hanno particolarmente
stimolato ascoltando le relazioni di questi giorni e ricordando gli atti dei
precedenti seminari.
La prima considerazione, diciamo così, è di carattere storiografico.
Nonostante l'importanza delle relazioni tra Sicilia e Gran
Bretagna e la dimensione dalla colonia inglese nell'Isola, soltanto da circa
un ventennio l'attenzione degli studiosi si è soffermata sulla presenza inglese
e su i suoi riflessi sull'economia e sulla società siciliana. Difatti se togliamo
le notazioni di Rosario Romeo nel suo ben noto Risorgimento in Sicilia (1950)
e alcune acute osservazioni di Francesco Renda ne La Sicilia nel 1812
(1963), sarà, nel 1977, l'ormai classico Principi sotto il vulcano di
Raleigh Trevelyan(1) - che farà tornare in scena come protagonisti principali
delle vicende dorate dell"'alta società" anglo-siciliana Benjamin Ingham, i
Whitaker e gli altri Inglesi residenti in Sicilia - a sollecitare l'interesse
attorno a queste figure, contribuendo così a dare una spinta a studi più analitici
sulla presenza inglese e sul ruolo delle grandi famiglie mercantili. In realtà,
in un primo momento, tali studi - condotti a più voci - erano per lo più orientati
verso l'ambito di una più complessiva riflessione sulla presenza dei numerosi
mercanti inglesi attivi nella Sicilia dell'Ottocento analizzandone sia le molteplici
attività economico- finanziarie, sia il ruolo di singole figure nel contesto
economico siciliano e il loro inserimento nel commercio internazionale. Cresce
così, in quest'ultimo decennio, l'interesse degli studiosi verso le grandi figure
dei mercanti inglesi in Sicilia, tra cui certamente svetta incontrastata quella
di Ingham e dei suoi eredi Whitaker.
Non erano mancati già nell'Ottocento, brevi e occasionali
profili biografici di Ingham, tuttavia, nonostante la notorietà del personaggio
e le dimensioni del suo impero economico, sarà solo nel 1936 Tina Whitaker Scalia
(moglie di un nipote di Ingham) a tentare attraverso le "carte di famiglia"
e i ricordi familiari, la ricostruzione della vicenda personale e delle esperienze
mercantili e imprenditoriali inquadrandole però in un contesto molto generale.(2)
Di ben altra portata invece il lavoro di ricerca di Irene D. Neu. Era questo
il primo concreto tentativo di analisi delle attività economiche e imprenditoriali
di "An english businessman in Sicily" e, in modo particolare, degli investimenti
di Ingham negli Stati Uniti.(3)
Negli ultimi anni, con il ritrovamento della corrispondenza
commerciale della ditta Ingham, la ricerca e gli studi storiografici su Benjamin
Ingham ed anche su altri inglesi in Sicilia hanno avuto impulso decisivo. L'Archivio
Ingham-Whitaker, a lungo ritenuto perduto o distrutto ed oggi custodito presso
la ditta "Carlo Pellegrino & C." di Marsala e la Fondazione Whitaker a Palermo,
ha consentito di avviare una concreta analisi delle attività economiche del
maggiore tra i mercanti inglesi in Sicilia e dei suoi interlocutori siciliani
ed esteri. Questo rinnovato interesse verso gli Ingham-Whitaker e più in generale
verso la comunità inglese in Sicilia ha certamente contribuito a delineare,
anche in modo molto dettagliato, i vari aspetti delle loro attività commerciali,
finanziarie e imprenditoriali nel corso del XIX secolo. Un primo momento nodale
per questa riflessione storiografica può essere indicato appunto nel seminario
di studi svoltosi a Marsala nel 1985 e dedicato a "Benjamin Ingham nella Sicilia
dell'Ottocento". Nel solco di quel seminario si sono inseriti, in continuità,
il convegno di Trapani nel 1990 su "I Whitaker e il capitale inglese in Sicilia
tra Ottocento e Novecento" e quest'ultimo, dedicato agli eredi di Ingham.(4)
In fondo i tre seminari - sintetizzando - hanno visto, il primo, la fase della
"costruzione" dell'impero economico Ingham-Whitaker-, il secondo, la fase del
"consolidamento"; quest'ultimo, il graduale "decadimento".
I tre seminari di fatto - anche in presenza della nuova documentazione
disponibile presso gli archivi Ingham e Whitaker - hanno posto, secondo me,
all'attenzione degli storici due questioni fondamentali. La prima questione
riguarda il grado d'impegno e di partecipazione degli Inglesi di Sicilia alla
vita economica siciliana. Più esplicitamente: in quale misura la colonia britannica
resta fedele alla tradizionale scelta commerciale; s'impegna nell'attività industriale;
partecipa alle grandi operazioni di credito? La seconda questione invece attiene
- diciamo - l'incidenza della presenza degli operatori commerciali britannici
sullo sviluppo economico e sociale della Sicilia. Cioè, per meglio dire, fino
a qual punto quella presenza ha influenzato o stimolato l'attività della borghesia
commerciale e imprenditoriale isolana? E' sulle risposte, complesse e articolate,
che in tal senso vengono espresse nei risultati di questi incontri che mi voglio
soffermare brevemente a conclusione di questo seminario.
Tra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento
(1793-1806) - sostiene la D'Angelo, nel suo bel lavoro sui Mercanti inglesi
- la Sicilia andava assumendo sempre più il ruolo di potenziale risorsa commerciale
e militare nei rapporti con la Gran Bretagna. Infatti l'Italia meridionale in
quella congiuntura si andava imponendo come primaria e, in fondo, obbligata
alternativa, riproponendo il problema della stessa regolamentazione dei rapporti
tra i due regni.
Se il Mezzogiorno continentale aveva richiamato il maggior
interesse inglese come mercato alternativo incentrato sul porto e sulla piazza
di Napoli, anche la Sicilia aveva attirato un consimile interesse, tanto più
intenso quanto più le congiunture politiche l'avevano posta in primo piano.
Al di là dello Stretto, se il Regno di Napoli costituiva per i primi uno dei
numerosi stati satelliti, inserito più o meno facilmente nel sistema napoleonico,
la Sicilia per gli Inglesi aveva finito per assumere il ruolo di maggiore area,
se non unica, del Mediterraneo potenzialmente utile per operazioni militari
e commerciali. In questo quadro pertanto si inseriscono gli "Inglesi in Sicilia",
la politica britannica e, nello stesso tempo, la Sicilia dei mercanti inglesi.(5)
L'isola si presentava, in realtà, come la maggiore area del
Mediterraneo centrale aperta agli Inglesi. D'altra parte i mercanti inglesi
interessati al commercio con quel mare avevano avuto modo in pochi anni di rafforzare
la loro presenza, cogliendo, nella fase critica, sia l'opportunità commerciale
aperta dall'occupazione di Malta, entrambi destinati a divenire strettamente
complementari.(6)
Ma coloro i quali, per spirito di intraprendenza o per necessità
pressanti, seppero aprire quella via gettarono le basi della loro ripresa. Questi
soggetti si mossero nel difficile rapporto tra governo inglese e governo siciliano,
tra politica e commercio, tra emergenza e ristrutturazione del loro apparato
commerciale. E tra i numerosi "coloni" inglesi in Sicilia cominciarono a svettare
figure come Ingham, Woodhouse e Gibbs. Quest'ultimo, a cavallo dei due secoli,
con i suoi prestiti e con le sue operazioni finanziarie e mercantili aveva costituito
un primo, consistente canale per la penetrazione del capitale inglese nell'economia
siciliana.(7) Al vino, d'altra parte, - com'è noto - era legata la più nota
presenza inglese a Marsala; presenza che nel corso dell'Ottocento avrebbe raggiunto
una notevole consistenza con una funzione economica e sociale forse solo di
recente sufficientemente considerata. Alla dozzina di mercanti che tra Sette
e Ottocento costituivano il nucleo della colonia inglese nell'Isola, nei primi
anni del nuovo secolo si aggiungeva un ben più consistente gruppo destinato
a diventare, al di là della congiuntura napoleonica, una presenza costante,
più folta e sempre meglio inserita nella vita economica e sociale della Sicilia
ottocentesca. Cosicché i porti di Palermo e Messina già nel primo quindicennio
del secolo si configuravano come approdi internazionali dai quali i bastimenti
inglesi facevano rotta con prodotti locali verso la Gran Bretagna e altre destinazioni
o, per converso, immettevano nell'Isola la maggior parte dei propri manufatti,
intensificando il complessivo interseambio tra Sicilia e Gran Bretagna.
E' comunque indubbio l'eccezionale aumento del numero dei
mercanti inglesi in Sicilia, soprattutto dopo il 1806, e di quelli trasferitisi
da Napoli; ma molti altri - come ampiamente ha documentato la D'Angelo - si
istallarono nell'area mediterranea. Non v'è dubbio, altresì, sull'espansione
del movimento commerciale di molte nuove sedi consolari nei porti minori e nelle
piazze di commercializzazione dei prodotti tipici siciliani. Del resto le lunghe
controversie, i conflitti diplomatici e le pressioni degli industriali manufatturieri
inglesi interessati al commercio con la Sicilia sono una riprova dell'interesse
crescente degli operatori economici britannici per un processo di espansione
commerciale. Pertanto, su una base preesistente ma non robusta, il decennio
1806-1815 rappresentò una svolta significativa, collegando Sicilia e Gran Bretagna
in un tessuto di rapporti non solo politici ma, anche economici, sociali e culturali
perduranti molto dopo l'Unità.(8)
Nella Sicilia della prima metà dell'Ottocento le attività
commerciali e industriali, accanto alle professioni liberali e agli impieghi,
offrivano alla borghesia cittadina nuove opportunità di rafforzamento, sebbene
il basso tenore di vita dei contadini e la frantumazione dell'Isola - come avverte
il Romeo - in una «moltitudine di mercati minuscoli» non favorissero un'adeguata
espansione del mercato interno, limitando di fatto le operazioni commerciali
di grande respiro principalmente a quelle con l'estero.(9) In questo quadro
s'inserivano le nuove iniziative industriali e commerciali del periodo. Sotto
la spinta di esigenze pressanti, quali la necessità di collegamenti più veloci
e regolari tra Napoli e la Sicilia e la possibilità di vantaggiosi investimenti
nel settore della marina mercantile, imprenditori e mercanti stranieri e locali,
con alla testa l'inglese Benjamin Ingham" e il siciliano Vincenzo Florio,(11)
fondavano nel 1840 la "Società dei battelli a vapore siciliani".(12)
In che misura dunque la presenza straniera agì da
impulso alle attività economiche dell'Isola e della sua borghesia?
Per molti versi il ruolo del ceto imprenditoriale e mercantile
isolano (a parte il "caso" Florio) sembra quasi insignificante, anzi incapace
di tentare l'apertura di nuove attività e di nuovi sbocchi rispetto ai mercati
tradizionali, mentre il grosso delle grandi operazioni commerciali restava in
mano agli imprenditori esteri e veniva azionato con capitali stranieri. Nella
Sicilia della prima metà dell'Ottocento, il monopolio dell'esportazione dei
vini e dello zolfo era certamente esercitato da mercanti o da ditte inglesi,
i quali, assieme ad altri operatori esteri, avevano parte importante in altre
imprese commerciali e finanziarie.
Ma è anche vero che, accanto ad essi, vi era un numero considerevole
di commercianti, mercanti e imprenditori, piccoli e meno piccoli, che svolgevano
un volume d'affari che complessivamente preso non era certo inferiore a quello
degli stranieri. E' chiaro che questo non bastava da solo ad individuare forti
capacità innovative, come é mostrato dal fatto che le poche industrie di trasformazione
esistenti non superavano i limiti dell'impresa artigianale. Tuttavia se è
vero che gli imprenditori locali trascuravano la modernizzazione a vantaggio
delle piccole imprese familiari e dell'artigianato, come remora all'industria
vera e propria; e se è vero che attorno ai prodotti principali (seta, vino,
zolfo) si svolgeva una guerra di capitali inglesi, francesi, svizzeri e poi
tedeschi;(13) è anche accertato che non mancava il concorso dei siciliani nel
momento di più accelerato dinamismo, e specie dagli anni '40 all'unificazione.
Mancava tuttavia la forza di iniziative più consistenti, con capacità associative
locali di medie e grandi dimensioni e autonome rispetto al capitale straniero.
Gli atti dei due seminari e gli studi precedenti e anche successivi, dimostrano
difatti che i mercanti e gli imprenditori locali s'impegnavano in moltissime
operazioni associative, spesso però create per imprese limitate e momentanee.
Non va tuttavia trascurata, nel quadro complessivo, la spinta associativa che
si affaccia in Sicilia, dando luogo ad attività con raggio più ampio, di tipo
commerciale o speculativo.(14) In questo senso forse si può dire che la presenza
del capitale straniero e soprattutto inglese, mentre stimolava la stessa imprenditoria
siciliana, ne condizionava la qualità, subordinata a funzioni di sostegno più
che di direzione.
Dal commercio questi gruppi avevano tratto i mezzi finanziari
per gli investimenti in altri settori fattore di consolidamento della loro influenza
nelle attività economiche dell'Isola. L'intreccio tra attività commerciale e
finanziaria e tra capitali esteri e capitali locali emerge con maggior chiarezza
appunto a Palermo e Messina, mercati più forti sia per il volume degli affari
sia per il peso degli operatori stranieri. Qui anzi la borghesia locale assumeva
- soprattutto nel settore assicurativo - proprie iniziative, mostrando una più
,pronta assimilazione degli stimoli offerti dai componenti delle colonie estere.
Si ha la sensazione che il gruppo degli Inglesi residenti
a Messina - ma l'osservazione può essere sicuramente estesa anche al resto dell'Isola
- erano più propensi ad investire i propri profitti nelle attività commerciali
a loro più proprie o in investimenti nelle industrie di trasformazione dei prodotti
naturali isolani, come nel caso di Ingham e Woodhouse a Marsala, Sanderson e
Hallam a Messina, e che questi fossero piuttosto degli investimenti sussidiari.
Difatti la presenza inglese nelle operazioni di tipo "speculativo-finanziario"
sembra essere piuttosto limitata, almeno da quanto risulta dagli esiti della
ricerca fino a qui condotta. L'attenzione maggiore si rivolgeva piuttosto verso
il complesso delle attività commerciali, con l'inserimento nei settori nuovi
o nel crescente interscambio dei prodotti tradizionali, cioè in spazi poco sfruttati
dalla borghesia commerciale e imprenditoriale dell'Isola. Si spiega così la
ragione dell'applicazione di una buona parte di profitti fuori dall'Isola (Ingham,
Sanderson). Il settore assicurativo era, in un certo senso, la linea privilegiata
della borghesia commerciale locale, che vi impegnava talora rilevanti capitali.
Questa linea preferenziale della borghesia locale, speculativo-finanziaria
più che commerciale, era senz'altro tra le cause che impedivano un suo maggiore
inserimento nelle attività più fruttuose dell'interseambio o delle manifatture,
e da essa derivava la debole spinta alla formazione di un moderno ceto mercantile
siciliano. «Pochi siciliani - osservava difatti un contemporaneo - esercitano
nel più alto grado di energia il commercio. La maggior parte dell'utile proveniente
da questa industria va nelle mani de' negozianti esteri».
L'esportazione dello zolfo, il settore più importante, era
stata in larga misura monopolizzata - com'è noto - da una quindicina di ditte
inglesi; ed altrettanto può dirsi per il vino, dove dominavano i grandi mercanti-imprenditori
britannici di Marsala, i Woodhouse, gli Ingham, ecc.
Il modello Ingham - che si conosce meglio di altri casi analoghi
- può considerarsi comunque tipico dei metodi e dell'espansione operativa adottati
dalle colonie inglesi dell'Isola. Nel suo caso il ciclo d'investimenti era più
completo, ma rappresentativo di forme comuni di attività. Ciò significa non
solo che era importatore ed esportatore, ma che possedeva diverse navi che facevano
la spola tra la Sicilia, l'Inghilterra e l'America. Si era in tal modo costituita
una trama tra le navi che trasportavano merci per suo conto e per conto di altre
case mercantili siciliane, inglesi e americane e quelle inglesi o americane
controllate dai mercanti con i quali aveva rapporti d'affari. A Palermo egli
conduceva un commercio sia all'ingrosso che al dettaglio, prodotto fondamentale
il vino esportato in Inghilterra o in America, cui si affiancavano, per l'Inghilterra,
zolfo, stracci, sommacco e olio d'oliva. All'incontro la "Ingham & Co." importava
dall'Inghilterra tessili, carbone, ferro, rame e stagno.(16) In quest'ultima
direzione, d'altra parte, si trattava di un consolidamento e ampliamento della
linea inaugurata durante l'occupazione e proseguita negli anni successivi.
C'è da aggiungere poi, in quanto all'esportazione, che lo
stesso commercio degli stracci non era appannaggio esclusivo di Ingham. Whitaker,
Horner, Bentley, Routh Valentine, Morrison e Co., Oates, Taunton ne esportavano
anch'essi in Inghilterra discreta quantità, il che rendeva più travagliata la
vita delle cartiere siciliane.(17)
Non c'è bisogno di insistere oltre sull'importanza e sulla
vitalità dei gruppi commerciali inglesi in Sicilia, i due seminari e gli studi
recenti lo confermano. Le notizie sulle loro attività sono numerose e tutte
convergenti sia nella conferma del loro rafforzamento dopo il 1806 sia nella
valutazione del loro importante volume d'affari. L'investimento dei capitali
era perciò cospicuo e basta riferirsi al commercio dello zolfo e anche all'impiego
di capitali inglesi in attività industriali siciliane per completare un quadro
di presenza incisiva e, alla fine, malgrado lo scarso dinamismo dei gruppi locali,
positivo.
Il capitale inglese si era diretto, d'altra parte, verso
il settore industriale, sebbene per la parte più strettamente congiunta al loro
determinante interesse commerciale. La Sicilia di questo periodo è dominata
dall'area rurale, ma in qualche misura anche interessata ad un primo innesto
di attività manufatturiera, pur legata a pochi centri (Messina, Catania, Marsala,
Palermo) e al prevalente impegno inglese e, comunque, dei gruppi esteri. Per
questo si era attuata nelle zone più direttamente interessate una prima trasformazione
sociale. Si era formato un ceto operaio di alcune migliaia di addetti nelle
fabbriche o nelle attività collaterali, che si aggiungevano alle altre migliaia
di persone che lavoravano duramente nelle saline, nelle miniere di zolfo o nelle
attività della marina mercantile. Il mercato interno era in crescita, ma la
base popolare e la sua nuova condizione non consentiva né un suo più deciso
ampliamento né, per contro, un più consistente sviluppo industriale. I salari
restavano bassi e stazionari pur se il periodo registrava una qualche diminuzione
di prezzi. E restava consistente la differenza tra i salari agricoli e quelli
dei settori artigianale e industriale. Restava tuttavia il fatto della permanenza
dell'arretrata struttura agraria e dei processi di riformazione del grande possesso
latifondistico con il conseguente processo di accelerata selezione nelle campagne,
il cui peso maggiore cadeva sul ceto rurale.(18)
In quelle condizioni gli investimenti industriali erano limitati
e, comunque, molto lontani dal livello richiesto per una sostanziale trasformazione.
Poco rischiavano i siciliani, scarso era l'intervento degli operatori esteri,
non interessati ad una trasformazione in quella direzione. In effetti non tutto
restava fermo, nemmeno in questo settore. Imprenditori locali e stranieri avevano
avviato una linea di industrializzazione, non solo nei settori di prima lavorazione
dei prodotti agricoli, e quasi mai nei comparti in cui si era consolidato il
predominio dei prodotti esterni e, comunque, nei settori propulsivi. Più che
questi, in definitiva contavano di più, dal lato economico come da quello sociale,
le realizzazioni industriali del periodo, di completamente o di sostegno, alle
attività commerciali prevalenti. Tra gli operatori inglesi, oltre ai già ricordati
Ingham e Woodhouse, bisogna ricordarne altri, pure impegnati in attività industriali
a partire dalla metà dell'Ottocento: William Sanderson, ad esempio, che aveva
creato a Messina uno stabilimento attivo ancora nel Novecento per i derivati
agrumari e Tornmaso Hallam con un setificio di buona capacità produttiva nella
seconda metà degli anni cinquanta.
Gli Inglesi erano meno impegnati nei settori serico e cotoniero,
dove la presenza di operatori di altre nazionalità era maggiore. In questo campo
quasi isolate restavano le iniziative di Giovanni Coop (fabbrica di mussoline
a Messina) e di Tommaso Hallam. Si ha l'impressione, appunto, che per gli Inglesi
scarsi erano gli stimoli ad investire nel settore della filatura o della tessitura
del cotone, la cui produzione in Sicilia era la maggiore in Italia, superando
poco prima dell'Unità i 38.000 quintali annui.(19) Lo stesso può dirsi per il
settore serico, nel quale tuttavia la realtà era diversa e, nel campo della
prima lavorazione, in fase di sviluppo anche tecnico.
A conclusione di queste poche considerazioni, si può dire
che la colonia britannica restava fedele alla scelta commerciale, s'impegnava
poco nelle attività industriali ed era scarsamente presente nelle grandi operazioni
di credito. E, più in generale, si può concludere, che, dai seminari, a conferma
di quanto ha già puntualmente osservato il Romeo, la Sicilia era dotata - malgrado
l'accertato innesto di taluni impianti moderni - di un apparato industriale
e finanziario ristretto e «irrazionalmente organizzato», nel quale la macchina
a vapore stentò a penetrare fino agli anni immediatamente precedenti all'Unità.
L'assenza «di ogni congegno ereditizio» contribuiva peraltro a frenare, al di
là di ogni specifico limite, l'afflusso verso l'industria dei capitali pur esistenti
nell'Isola. Se si eccettuano le Casse di Corte e di Sconto di Palermo e Messina,
non esisteva - a parte il piccolo credito diffuso - «alcun istituto in grado
di esercitare il credito industriale e commerciale».(20)
In un tale ambiente era pertanto difficile la formazione
di moderni imprenditori. Certo non mancavano qua e là figure di capitani d'industria
di tipo moderno. Vincenzo Florio era uno di questi; e lo era altresì Benjamin
Ingham che, oltre ad essere il maggiore industriale e commerciante vinicolo
siciliano - come sappiamo - era pure interessato in grossi affari di terreni
e di trasporti marittimi, speculava sulle aree edificabili di New York, possedeva
azioni nella "New York Central Railroad" e si occupava di altri affari negli
Stati Uniti. Ma le eccezioni, come si dice, confermavano la regola. In realtà
le caratteristiche peculiari della maggior parte degli uomini d'affari della
Sicilia soprattutto della prima metà dell'Ottocento, erano lo scarso spirito
di associazione, la debole attitudine al rischio, la limitatezza degli investimenti,
interessati com'erano più alla rendita della terra, che non all'attività trasformatrice.
Tuttavia, se non si può parlare di un autonoma classe industriale, ci si può
riferire ad un ceto più numeroso e più intraprendente di negozianti-imprenditori,
nei quali era prevalente il primo elemento. Non mancavano i siciliani, ma subordinati
talora al folto numero di forestieri, e specie Inglesi, i quali spesso erano
alla testa delle imprese e delle attività commerciali più importanti.