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Il falso Federico II di Giovanni Albano

Il falso Federico II
di Giovanni Albano



Federico II, lo Stupor Mundi, alimentò in modo sapiente il suo mito con i gesti prima ancora che con le parole. Spesso, assiso sul trono, rimaneva in un silenzio ieratico, lontano da tutti, mentre Pier delle Vigne parlava in suo nome. Nell’iconografia ufficiale, a partire dal 1231, Federico II si fece ritrarre nelle vesti dell’imperator romano. Così, quando trovò la morte a Fiorentino di Puglia, il 13 dicembre 1250, in molti non vollero crederlo morto.
Ancora nel 1302, Jans der Enikel, uno storico e poeta viennese che compilò la Weltchronik, un’ambiziosa storia del mondo in 30.000 versi, scriveva che ancora nessuno sapeva dove fosse veramente Federico e che soprattutto in Italia si discuteva se fosse ancora vivo.
Nacquero così i casi dei “Falsi Federici”: impostori che si spacciavano per l’imperatore.
Il più famoso di cui si ebbe conoscenza fu nel 1261, un mendicante siciliano, Giovanni de Coclearia, che risiedeva alle falde dell’Etna.
Si "cunta ca" Giovanni era un contadino, la sua vita era semplice e modesta, dedicata al lavoro nei campi. Era noto per la sua bontà d'animo e la sua grande saggezza, che lo rendevano una figura rispettata e amata da tutti quelli che lo conoscevano.
Un giorno, mentre lavorava nei campi, Giovanni trovò una piccola chiave d'oro tra le zolle di terra. Incuriosito, decise di portarla con sé, pensando che potesse appartenere a qualcuno. Ma nessuno riconobbe la chiave né sapeva a cosa potesse servire.
Una notte, Giovanni ebbe un sogno misterioso: una voce angelica gli rivelò che la chiave d'oro apriva un antico tesoro nascosto in una grotta segreta, situata sull'Etna. Spinto dalla curiosità e dal desiderio di aiutare, Giovanni decise di intraprendere il viaggio alla ricerca del tesoro.
Dopo giorni di cammino, Giovanni trovò la grotta descritta nel suo sogno. Usò la chiave d'oro per aprire una porta nascosta e scoprì un grande specchio che rifletteva la sua figura e capì che era Federico II che aveva perso la memoria.

In effetti era un sosia quasi perfetto dello Svevo. L’unica differenza era che sfoggiava una lunghissima barba. Ma parlava e si muoveva come lui. Alcuni seguaci dell’imperatore andarono a trovarlo e gli credettero, nonostante Federico II risultasse ufficialmente morto da undici anni.

L'uomo sostenne di essere scomparso per così tanto tempo per adempiere a un voto: quello di compiere un pellegrinaggio. E che c’erano voluti nove anni per emendare, attraverso la penitenza, i suoi tanti peccati, e che tanto aveva sofferto ed espiato che aveva dimenticato pure chi fosse e solo lo specchio fatato aveva avuto il potere di rivelargli la sua identità.

La popolazione lo acclamò con entusiasmo. E alla sua storia fece finta di credere anche papa Urbano IV, che voleva usare l’impostore nella spietata guerra che lo opponeva a Manfredi, il figlio di Federico (quello vero), sostenuto pure dal potente conte di Catanzaro Pietro (II) Ruffo.

Il figlio dell’imperatore e di Bianca Lancia, re di Sicilia dal 1258, non poteva tollerarne la presenza che ne indeboliva il potere. Con uno stratagemma, invitò il falso padre a cenare con lui al castello Ursino. Giovanni, tutto contento, accettò l'invito e si recò al castello. Non sospettò niente neanche quando vide nella piazza antistante il fortino piantati tredici pali.
Manfredi lo fece catturare prima ancora che entrasse al castello e immediatamente impiccare insieme a dodici dei suoi seguaci proprio sui pali che aveva dato ordine di preparare.
Non è un caso che fosse proprio l’Etna il teatro della comparsa di uno dei “falsi Federici”. Tommaso da Eccleston, un frate minore inglese, nel suo “De adventu Minorum in Angliam”, raccontò in 15 capitoli le storie che i frati missionari in Inghilterra si scambiavano la sera accanto al fuoco, davanti a una pentola ricolma di birra. Attribuì a un suo confratello siciliano, raccolto in preghiera sotto l’Etna, proprio lo stesso giorno in cui l’imperatore era morto, una stupefacente visione: cinquemila cavalieri che si immergevano in mare. Le acque ribollirono, come se le armature “fossero di bronzo ardente”. E uno dei cavalieri parlò al frate tramortito dalla potenza di quella immagine: “Questi è Federico Imperatore che va all’Etna con i suoi cavalieri”.
Il favoloso racconto ebbe una qualche fortuna. Il Mongibello, con i suoi scenari infuocati, era considerato una specie di porta dell’inferno, che l’imperatore, morto scomunicato, prima o poi doveva per forza passare.

Fonti: festivaldelmedioevo. it: Federico II, oltre la morte; mediumaevumweb.wordpress. com; treccani.


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